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Scetticismo fra i lavoratori

Perché la riforma di Urso ha sollevato le proteste dei benzinai

Mariarosaria Marchesano

Chi gestisce i distributori di carburanti si lamenta dell'eccessivo spazio di libera contrattazione legato al decreto legge targato Mimit, foriero di sproporzioni tutte a vantaggio delle compagnie petrolifere 

Oltre ai balneari, c’è un’altra categoria che il governo Meloni rischia di scontentare ed è quella dei distributori di carburanti, i benzinai, che poi sono luoghi “sacri” per le casse dello stato perché è da qui che arrivano miliardi e miliardi, tra Iva e accise. L’annuncio dell’arrivo di una riforma del settore ha messo in subbuglio una categoria che ama poco i riflettori e che con i governi cerca sempre un compromesso, salvo rari casi in cui si arriva alla sciopero come potrebbe verificarsi questa volta “perché – spiega al Foglio Giuseppe Sperduto, presidente della Faib-Confesercenti –  dovevamo attendere il governo Meloni, con Urso al Mimit, per riuscire a distruggere quello che abbiamo costruito in decenni”. 


La questione si può semplificare dicendo che il confronto tra i gestori dei punti di distribuzione dei carburanti, ciascuno dei quali ha a suo carico alcuni addetti, e le compagnie petrolifere non è mai stato facile. Per natura, c’è uno sbilanciamento dei rapporti di forza che viene in parte compensato dal ruolo svolto dalle associazioni sindacali di categoria, Faib-Confesercenti, Figisc-Confcommercio e Fegica, fino a oggi sempre coinvolte nelle trattative sulle contrattazioni, ma che la riforma ipotizzata da Palazzo Chigi punta a ridimensionare. Ebbene, racconta in sintesi Sperduto, “è successo che mentre stavamo cercando di trovare una strada condivisa per riformare l’assetto di un settore che così com’è non funziona, perché in Italia abbiamo 22.500 impianti di distribuzione, il doppio di Francia e Germania, di cui 5.000 sono sotto la soglia di povertà, il governo ha deciso di emanare un decreto legge che liberalizza la contrattazione tra distributori e compagnie con un vantaggio fin troppo evidente per le seconde. Così non va bene anche perché si rischia di rendere ancora più precario un mondo di lavoratori che già arranca. Molti forse pensano che a gestire un distributore di benzina si diventa ricchi. Macché. Sapete quant’è il giro d’affari medio annuo? 20 mila euro lordi. Molti benzinai lavorano per 5-600 euro al mese”. 


         

 

La sintesi della storia è che proprio l’eccessivo numero di punti di distribuzione nel nostro paese rende molto risicati i margini di guadagno anche se, ovviamente, dipende dalle zone. Il calcolo, però, potrebbe risultare approssimato per difetto perché esistono ben 3.000 distributori “fantasma”, di cui cioè non si conosce l’ubicazione o che sono inattivi, e che però vengono conteggiati quando si calcolano gli introiti dei benzinai. Va detto, comunque, che questi ultimi ricevono una quota fissa che non supera i 4 centesimi al litro mentre la restante parte degli introiti delle pompe se la dividono i produttori di carburante e lo stato in termini di tasse. Il forte malumore suscitato dalla riforma targata Mimit, e di cui il ministro Adolfo Urso è grande sostenitore, ha fatto sì che l’esame del Ddl da parte del Consiglio dei ministri fosse rinviato e che si aprisse uno spiraglio per riprendere il confronto tra le parti che era stato interrotto. Ora, quello che pensano i sindacati di categoria è che il Mimit sia troppo “amico” dei petrolieri e poco vicino all’anello debole della filiera, cioè distributori e lavoratori, il che è tutto da verificare, anche se non è difficile immaginare che società come Eni, Q8, Total, Italiana Petroli, le principali che operano nel paese, facciano sentire il proprio peso (Eni, poi, è direttamente controllata dallo stato) nel momento in cui si mette mano a una rivisitazione del settore che può avere dirette conseguenze sul loro business e sull’organizzazione delle reti di distribuzione. Ma è anche vero che dovrebbe essere interesse dei produttori trovare un assetto efficiente, che vuol dire anche non affamare i benzinai. 


Il nodo della discussione, come spiega Sperduto, ruota attorno al cambio di regime contrattuale ipotizzato dalla riforma meloniana, cioè si passa da un contratto di affidamento di sei anni a un contratto di subappalto di cinque anni (prima della protesta erano tre) per regolare il rapporto tra compagnie petrolifere e distributori. Come effetto di questo passaggio si apre, dicono i sindacati, uno spazio eccessivo di libera contrattazione che implica di fatto la loro esclusione. Si vedrà come andranno le cose con la ripresa del confronto e la revisione del ddl che, tra l’altro, prevede la cancellazione dell’obbligo di esporre alle pompe la differenza tra prezzo self della benzina e quello servito. E questa si può tranquillamente dire che non è un’idea brillante per i cittadini.
 

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