il collegio delle vanità

Il ministero della Cultura, un brutto anatroccolo di governo. Pochi soldi e molte  ambizioni

Stefano Cingolani

Siamo la capitale mondiale di cultura e arte, ma il Collegio Romano esiste solo da 50 anni, ha cambiato varie formule e resta una gabbia napoleonica in cui contano ambizioni e consorterie. Pochi soldi e molte grane. Il paese dei mali culturali

“È deprimente, è una vergogna”. Che cosa, l’affaire Sangiuliano? “Ma no, di quello non voglio parlare. Mi dica piuttosto: il ministero della Cultura sarebbe finito in prima pagina senza commedie all’italiana?”. L’alto burocrate, anzi il grand commis perché soprattutto dall’èra Franceschini il modello è francese, oscilla tra l’indignazione e la rassegnazione. Poi ammette: “Ma forse è colpa nostra, non di voi giornalisti”. Dividiamoci pure le responsabilità, ma è certo che il Mic (nel deep state si parla per acronimi) è stato sottovalutato. Si spende per la cultura meno che in altri paesi europei. Il ministero ha un bilancio di quattro miliardi di euro tutto compreso, noccioline non solo rispetto agli 820 miliardi del Mef, ai 200 del Lavoro, ai 52 dell’Istruzione, agli 11 della Giustizia. La poltrona è stata a lungo riservata a figure anche di valore, ma di peso politico leggero fatta eccezione, su 25 ministri, per Govanni Spadolini, Giuliano Urbani, Walter Veltroni e Dario Franceschini, con un passaggio ad interim di Andreotti e un breve mandato di Francesco Rutelli. Eppure nel palazzo romano che ospitava il Collegio fondato da sant’Ignazio di Loyola, nelle stesse sale in cui Galileo Galilei difendeva la sua, di rivoluzione culturale, passa una rete di relazioni, influenze, decisioni che va al di là degli stessi quattrini e delle baruffe governative. Se la politica è spettacolo, se il consenso si costruisce sull’immagine, se le relazioni contano più delle cose, se il potere va ben oltre il denaro, allora il Mic è uno snodo fondamentale, un palcoscenico per chi fa il ministro, una finestra aperta sull’Italia e sul mondo per chi lo ha nominato.

  
 Non c’è sindaco che non bussi alla porta, non c’è governante straniero che non voglia essere invitato. Quel che rende potenti non è la questua di registi e attori, direttori e orchestrali, curatori di musei, perché di quattrini da prendere ce ne sono più altrove; no, è l’esposizione mediatica che trasforma il “ministro delle cerimonie” in un influencer. Chi sappia guidare il Mic esponendosi senza sovraesporsi, chi conosca i meccanismi del comando senza farsi prendere dall’ebbrezza di “fame and fashion” (per citare David Bowie) può davvero diventare prezioso per sé e per il suo pigmalione. Giorgia Meloni non ha nemmeno consultato il resto del governo prima di scegliere con chi sostituire Gennaro Sangiuliano. Quale macchina si trova a guidare Alessandro Giuli?

   
Al Collegio Romano fanno capo poco meno di ventimila dipendenti, compresi gli uscieri e i guardiani dei musei, un tempo assorbivano due terzi del bilancio oggi molto meno, il problema, semmai, è che sono troppo anziani e la maggior parte di loro non ha familiarità con le tecnologie informatiche. Il fossato digitale è ampio e profondo, e comincia dall’alto. La struttura è molto ramificata e complessa, è stata rimaneggiata più volte, l’ultima da Gennaro Sangiuliano che ha introdotto quattro dipartimenti a loro volta articolati in direzioni generali, al posto delle nove direzioni generali precedenti, anche per dare un altro segnale di discontinuità; l’egemonia culturale passa anche attraverso l’organigramma burocratico. Al ministero fanno capo archeologia, belle arti e paesaggio, i cento archivi di stato, 38 delle 46 biblioteche statali, musei, spettacolo, cinema compresa Cinecittà nonostante sia una società per azioni, e le 43 soprintendenze che tendono a operare molto spesso con la massima autonomia. La rete dei soprintendenti risale agli inizi del XX secolo. Ad essa si è poi affiancata anche quella archivistica, prima incardinata presso il  ministero degli interni. Entrambe hanno ampliato il radicamento locale. Non dimentichiamo gli enti pubblici vigilati come l’Accademia dei Lincei e quella della Crusca, la Società italiana degli autori ed editori, ma si va dalla Fondazione Guglielmo Marconi all’Edizione nazionale dei testi mediolatini. Cultura con la maiuscola, anzi con la kappa. Poi ci sono consigli (come quelli per cinema  e spettacoli), comitati tecnico-scientifici, osservatori di vario genere e peso, rimandiamo al sito chi voglia vedere tutti i dettagli, ma già da qui si capisce quanto sia estesa l’intera ragnatela del controllo e del consenso. 

  
Non sono state previste agenzie, come avvenuto in altri ministeri con la riforma di inizio secolo. Tuttavia il Collegio Romano ha fatto ricorso a società strumentali, Ales e Arcus. La prima attiva nel settore dei servizi per il pubblico. La seconda impiegata prima per finanziare progetti, poi per attuare al meglio la nuova normativa sul mecenatismo. Non  hanno avuto una vita lineare, soprattutto è rimasta ambigua la loro collocazione non si è mai chiarito fino a che punto fossero in house. Nel 2016 Ales ha incorporato Arcus, assorbendone le funzioni. Secondo alcune voci di dentro sono duplicazioni, i nostalgici del modello alla Cavour sono contrari a ogni autonomia esterna, altri parlano di “assumificio” oggi della destra, come ha scritto  Repubblica, prima della sinistra e dei cinquestelle (Alberto Bonisoli è stato ministro nel governo Conte 1, quello con la Lega di Salvini). Apollo che rapisce Dafne nella statua del Bernini è il logo del ministero, se la ninfa può impersonare la cultura, chi interpreta Apollo il rapitore?

 
Fino al 1974 il ministero era una piccola dépendence della Pubblica istruzione. Il quarto governo Moro decide di scorporare la struttura che in origine doveva essere un’autorità, un’agenzia con un proprio consiglio di amministrazione in grado di operare con una certa autonomia, non un ministero. Così aveva previsto la speciale commissione affidata all’onorevole democristiano Francesco Franceschini (nessuna parentela con Dario). Apriti cielo, troppo americanismo, meglio il bonapartismo. Il progetto in realtà era pronto, ma come ha scritto Massimo Severo Giannini “incontrò certe specie di tardigradi che abitavano quei palazzi, le quali furono terribilmente scandalizzate che si prevedesse un’amministrazione autonoma senza ministro-dittatore distributore di poltrone e di gettoni ad alti funzionari dello Stato e rifecero il progetto secondo i sacri canoni”. L’unica differenza è che il ministero viene chiamato non dei beni culturali, ma per i beni culturali, una ben piccola foglia di fico. Un punto di svolta è il 1998: in piena cultura della liberalizzazione rinasce anche l’originaria proposta di un’autorità. Il primo governo Prodi riorganizza l’intera struttura centrale, finisce che il Collegio Romano si muove per proprio conto e assorbe competenze come lo sport e lo spettacolo in tutte le sue espressioni. La legge Bassanini dà forma al dicastero, ma una forma tutt’altro che definitiva. Il secondo governo Prodi nel 2006 porta lo sport e il turismo a Palazzo Chigi, creando un apposito dipartimento la cui responsabilità effettiva passa ai Beni culturali affidati a Rutelli che è anche vice presidente del Consiglio. Sette anni dopo il governo Letta aggiunge il Turismo anche nel nome del ministero, ma il Conte giallo-verde lo affida all’Agricoltura, finché Mario Draghi non crea un ministero ad hoc. 

 
Sembra un balletto privo di senso, invece anche qui volteggiano interessi materiali, esposizioni mediatiche, spartizioni clienteleari. L’idea di uno stato se non minimo quanto meno leggero e di una cultura davvero pesante viene di nuovo scartata. Ci sono eccezioni, la più rilevante e quella di maggior successo riguarda il Museo Egizio di Torino. E’ il più importante al mondo dopo quello del Cairo, ma è in assoluto la più antica tra le raccolte dedicate interamente alla civiltà del Nilo. Dunque, ha una specificità, tuttavia la decisione di scorporare il museo avrebbe potuto essere l’inizio di una nuova fase. Nel 2004 il governo Berlusconi crea una fondazione della quale fanno parte la regione Piemonte, il comune e la provincia di Torino, la Compagnia di San Paolo e la Fondazione Cassa di risparmio di Torino. La politica mantiene un ruolo attraverso le istituzioni locali, però le fondazioni bancarie esercitano un bilanciamento che sottrae le nomine al puro spoils system. Primo presidente è stato Alain Elkann, nel 2012 il governo Monti sceglie Evelina Christillin, indicata dal ministro dei Beni culturali Lorenzo Ornaghi già rettore della Cattolica, e ancora in carica. Resta un’eccezione, anche se di tanto in tanto si parla di adottarla anche per gli Uffizi o per Brera. Il Louvre è un mito irraggiungibile e il modello della fondazione o della società viene sostituito da quello del consorzio (che il ministero ha adottato, ad esempio, per Venaria, Villa Reale, Carditello e Roma Colosseo). Una esperienza interessante è stata avviata nel 1997 a Pompei, creando un istituto dotato di una autonomia organizzativa e contabile, che consente una gestione più efficace, ma con una forte anomalia: gli stipendi restano interamente a carico del ministero. Via via gli istituti autonomi sono aumentati di numero – anche l’Archivio centrale dello Stato e le due Biblioteche nazionali godono di questo regime – e il modello è stato poi impiegato per riconoscere una prima forma di autonomia a 20 musei di interesse nazionale, ma sempre con il vincolo dei dipendenti che invece vengono gestiti e centellinati da Roma. 

 
Ogni progetto di autonomia si è infranto su due scogli: il primo culturale, perché prevale l’approccio ministerial-centralistico, quello dei “tardigradi” come li chiamava Giannini; il secondo riguarda il personale. Il primo si può anche superare con il tempo e l’ingresso di nuove generazioni più anglosassoni e meno napoleoniche, il secondo si è rivelato insormontabile. Davvero in pochi vogliono passare dallo stipendio fisso e dall’orario lasco del ministero a contratti che abbiano il sia pur lontano sentore del privato. Anche le fondazioni che si sono affermate nella musica lirica-sinfonica hanno un’autonomia davvero scarsa. Nel 1998, quando il ministero guidato da Veltroni acquisisce le competenze in materia di spettacolo, si decide anche di trasformare gli enti lirici in fondazioni private. Ma si pensa che lo stesso modello giuridico possa essere adatto per 13 (poi divenute 14) realtà profondamente diverse, soprattutto dal punto di vista del tessuto socio-economico e dell’area territoriale di riferimento, ha scritto Lorenzo Casini professore di Diritto amministrativo specializzato in beni culturali, già capo di gabinetto con Franceschini. Il risultato è che, salvo poche eccezioni (come la Scala e Santa Cecilia), la gran parte degli enti è rimasta interamente a carico dello stato e si sono resi necessari ripetuti interventi legislativi per perseguire il risanamento economico-finanziario delle fondazioni. Quanto alle nomine, oscillano tra il manuale Cencelli e la dottrina Carl Schmitt: niente al nemico sconfitto, tutto agli amici.

 
Già, le nomine: croce e delizia di ogni ministro, per il titolare della cultura sono una sfida da far tremare i polsi. Lasciamo stare le piccolezze pompeiane o la misera distribuzione di mance e incarichi in zona Cesarini come sembra sia avvenuto con Sangiuliano, parliamo delle nomine di peso. L’ego e l’ambizione di un alto burocrate sono nulla paragonate a quelle di chi ha, vuole o pensa di avere nelle sue mani i millenni dell’arte e del pensiero. Dario Franceschini apre le porte agli stranieri, una scelta che ha sollevato le ire dei sovranisti i quali, poi, se ne sono appropriati. Le procedure vengono cambiate, nella commissione che valuta i candidati entrano anche i direttori della National Gallery di Londra, del Prado di Madrid oltre che dell’Egizio di Torino. A Napoli, a Capodimonte, il francese Sylvain Bellenger rimane ben otto anni con una uscita di scena da signore. Ben diverso il tedesco Eike Schmidt: guida gli Uffizi anche lui per otto anni, poi nel gennaio scorso ottiene Capodimonte e si mette in aspettativa per candidarsi sindaco di Firenze con la destra. Per Sangiuliano è “un atto che rafforza lo spirito unitario dell’Europa”. Schmidt perde pesantemente, ma “ha lasciato il cappello sulla sedia, non gli faremo trovare nemmeno la sedia”, tuona Vincenzo De Luca. “Napoli è una grande capitale del mondo, non si può offendere la sua dignità con il vado e vengo”, attacca il presidente della Campania. Federculture, l’associazione, anzi il “sindacato d’impresa”, che rappresenta le principali aziende culturali ed è titolare del primo contratto collettivo del settore, si batte per salvaguardare i nuovi criteri di nomina e insiste affinché si affermi una effettiva autonomia gestionale come è avvenuto per l’Egizio o la Veneria Reale dove i dipendenti non sono statali, ma dell’ente consortile. “I musei devono essere in grado di fare ricerca, di organizzare mostre, invece di limitarsi a acquistarle dai privati come accade da troppi anni ormai”, sostiene Roberto Grossi, fondatore di Federculture, che nella sua vita professionale ha diretto Santa Cecilia il teatro Massimo di Catania e ha presieduto l’Accademia romana di belle arti. Quando si sta ancora recitando la sceneggiata pompeiana, i sindacati aderenti a tutte le sigle rumoreggiano non perché Sangiuliano si fa abbindolare da Maria Rosaria Boccia, ma perché non ha i soldi per pagare il salario accessorio ai dipendenti: si tratta di ben 65 milioni di euro. L’Unione sindacale di base canta vittoria per l’assunzione diretta dei dipendenti dell’Ales “a tempo indeterminato, senza periodo di prova, 38 ore settimanali di lavoro, riconoscimento dell’anzianità di servizio, un livello retributivo superiore al precedente, buoni pasto”. I lavoratori del cinema, mentre il ministro è a Pompei fotografato insieme alla “collaboratrice”, protestano davanti al Collegio Romano contro la revisione del tax credit, cioè quel sistema di crediti d’imposta e agevolazioni fiscali che sostiene i film girati e distribuiti in Italia. Di fronte all’incertezza delle norme e dei finanziamenti la produzione cinematografica si è ridotta del 40 per cento rispetto ai picchi raggiunti alla fine della pandemia. Non vogliamo terminare con l’elenco delle rogne che s’abbattono sul tavolo di Giuli. Ma tant’è. Non resta che augurargli buona fortuna.