Mario Draghi (foto Ansa)

l'editoriale del direttore

Meno agenda Beautiful, più agenda Draghi

Claudio Cerasa

Innovazione, produttività, rendite. I tabù dell’Unione europea sono gli stessi dell’Italia. La sveglia dell'ex presidente del Consiglio è anche per Giorgia Meloni

La pacchia è finita, cari europeisti. Ieri Mario Draghi ha consegnato alla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, un rapporto molto ambizioso sulla competitività dell’Europa. Il rapporto di Draghi è mastodontico, sono circa quattrocento pagine, e ciò che colpisce nella relazione è il numero impressionante di ceffoni mollati a destra e a sinistra dall’ex governatore della Banca centrale europea ed ex presidente del Consiglio italiano.

Mario Draghi, senza girarci attorno, senza eufemismi, senza mezze parole, dice che siamo arrivati al punto “in cui, se non agiamo, saremo costretti a compromettere il nostro benessere, il nostro ambiente o la nostra libertà”. E per l’ex premier italiano, agire significa semplicemente avere il coraggio di aprire gli occhi su tre temi, su tre vizi, che costituiscono i principali tabù di fronte ai quali si trova oggi la classe dirigente europea. Non c’è futuro per l’Europa, dice Draghi, senza fare i conti con il dramma della produttività europea, con il suo deficit, e bisogna partire da qui per capire la ragione per cui dal 2000 a oggi il reddito disponibile reale pro capite è cresciuto quasi del doppio negli Stati Uniti rispetto all’Unione europea. Non c’è futuro per l’Europa, dice Draghi, senza fare i conti con l’incapacità dell’Europa di investire nell’unico grande settore in grado oggi di stimolare la crescita, aumentare i posti di lavoro, rafforzare la produttività e far crescere i salari, ovvero il mondo dell’innovazione, e solo un continente che ha deciso volontariamente di entrare in una stagione di progressive agonie non può capire che “il gap di produttività tra l’Ue e gli Stati Uniti è anzi in gran parte dovuto proprio al settore tecnologico”, che “l’Ue è debole nelle tecnologie emergenti che guideranno la crescita futura”, che le imprese dell’Ue, essendo specializzate in tecnologie mature in cui il potenziale di innovazione è limitato, spendono meno in ricerca e innovazione, ossia 270 miliardi di euro in meno rispetto alle loro controparti statunitensi nel 2021”, che tra “le prime 50 imprese tecnologiche al mondo, solo quattro sono europee” e che “le imprese innovative che vogliono espandersi in Europa sono ostacolate in ogni fase da normative incoerenti e restrittive”. E infine, dice ancora Draghi, non c’è futuro per l’Europa se non imparerà che la decarbonizzazione è cruciale, non rinviabile, ma che questa non può “andare in senso opposto rispetto a competitività e a crescita”, e che quando l’Europa usa i dazi per proteggere se stessa non capisce che i principali problemi che riguardano l’industria europea non dipendono da fattori esogeni ma dipendono da fattori endogeni. E, dice Draghi, “se non riusciamo a coordinare le nostre politiche, c’è il rischio che la decarbonizzazione finisca per andare in senso opposto rispetto a competitività e a crescita”.

La nuova agenda Draghi è un bazooka puntato contro i populisti di destra, i populisti di sinistra, i populismi rigoristi, i populismi anti rigoristi. E’ un bazooka che farà notizia oggi principalmente per l’obiettivo a medio termine dell’ex premier italiano, che ha suggerito ai paesi membri dell’Unione europea di accelerare nel percorso di aggregazione, di unione delle forze, di cessione di sovranità, ponendo come obiettivo la realizzazione di un debito comune dal valore di 800 miliardi di euro, in grado di aiutare l’Europa a uscire fuori dalla fase di bassa produttività e di bassa crescita che da anni sta spingendo l’Europa a fare passi indietro rispetto ai passi in avanti fatti dagli Stati Uniti e dalla Cina nell’ordine gerarchico mondiale. Servono i soldi, sì, ma serve anche una consapevolezza trasversale, serve una comprensione unanime dei problemi reali, serve capire quali sono le sfide dell’Europa del futuro e serve capire che le armi di distrazione di massa che spesso la politica usa per non affrontare i problemi reali producono un cortocircuito descritto perfettamente da Draghi: viviamo con l’illusione che procrastinare i problemi possa aiutare a preservare il consenso ma fino a oggi la procrastinazione dei problemi non ha fatto altro che produrre una crescita più lenta, una competitività minore, un benessere ridotto che a nessun politicante ha mai permesso di generare più consenso.

Il bazooka di Draghi è lì a ricordare – più agli europeisti che agli anti europeisti, verrebbe da dire, perché i primi al contrario dei secondi l’Europa la potrebbero provare a cambiare, se non fossero terrorizzati anche loro dal superamento dello status quo – quali sono i tabù da focalizzare, quali sono i vizi da superare e quali sono i temi non più negoziabili per uscire in fretta dall’agenda della fuffa e concentrarsi finalmente sull’agenda della realtà. Sono i problemi dell’Europa, ma visti da qui sono esattamente i problemi dell’Italia. Bassa produttività uguale bassi salari. Bassa innovazione uguale bassa competitività. Combattere le rendite, superare lo status quo, uscire dalla logica del capro espiatorio.

Se in Italia ci fosse un leader desideroso di indicare una nuova direzione in Europa, e desiderosi di parlare un po’ meno ai propri follower e un po’ più al paese, oggi dovrebbe avere il coraggio di dire che la nuova agenda Draghi è la futura agenda non solo dell’Europa ma prima di tutto dell’Italia. Per fare la storia, come direbbe Meloni, occorrerebbe trovare un modo per essere un po’ meno ostaggio dell’agenda Beautiful (copyright Vincenzo De Luca) e immergersi con intelligenza nella nuova agenda Draghi, anche per provare a costruire in Europa maggioranze alternative a quella attuale. Il bazooka è lì, l’opzione pure, e il rapporto di Draghi ci dice con chiarezza che per gli europeisti, o i presunti tali, la pacchia è davvero finita.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.