Il ministro della Cultura Alessandro Giuli (foto Ansa)

Il ministro magico

La prima di Giuli, saluti al Pd, la commissione di Sangiuliano revisionata. I nomi dei possibili capi di gabinetto

Carmelo Caruso

Si presenta in Aula, per il Question time e annuncia che revisionerà le nomine di Sangiuliano ma perché non rispettano la parita di genere. Al ministero scatta intanto il repulisti

L’Italia ha ora un “Dannunzino”, il ministro della Cultura, Alessandro Giuli, il clarinetto magico. Indossa più anelli del faraone Ramses II, parla come fosse al Teatro Greco di Siracusa: “Ringrazio gli onorevoli interroganti, per la qualità delle domande poste”. Prima di entrare in Aula saluta il Pd che conta, Boldrini, Cuperlo, Amendola. Meloni non ha nominato un uomo di destra, ma l’uomo Roma, oro, carezze, colonia, che dice “fagocitiamoci di Cultuvra”. 

Anziché dire “cambio la commissione Cultura nominata da Sangiuliano”, Giuli, il Dannunzino, spiega che lui “revisiona” e che “io non mi sento offeso dalle nomine dell’ex ministro Sangiuliano”. Nella replica è geniale. E’ come se infilzasse uno spadino di rubino smaltato di diamanti (lo spadino lo avrà sicuramente nel suo garage Vittoriale; è un esteta) perché, ascoltate, le nomine sì, le revisiona, ma la ragione è un’altra: “Le nomine non rispettano la parità di genere”. Dunque, azzera le nomine di Sangiuliano, ma lo fa in nome della parità di genere. Capolavoro.

Il Pd manca poco e gli fa la ola, lo nomina segretario aggiunto per acclamazione. Il deputato Davide Faraone, di Italia viva, che lo interroga, sorride “e si ritiene soddisfatto” della risposta mentre Federico Mollicone, che ha tempestato di chiamate Giorgia Meloni, perché voleva fare il ministro della Cultura (e visto il caso Sangiuliano ha pure ragione) si propone come servizio d’ordine. La sorella del Dannunzino, Antonella Giuli, lo abbraccia, perché è sorella d’Italia, la dolce sorella di Giuli, tenace, brava, una che ha fatto la fortuna di Lollobrigida, almeno fino a quando lo ha seguìto da portavoce. Il Dannunzino: “Scusate, ma devo salutare una sorella d’Italia”.

Il Dannunzino è già il ministro con la corte del Carnaro. Seguono Giuli, il sottosegretario Mazzi, FdI corre al completo, e pure Fazzolari manda il suo vero vice Fazzolari, Francesco Filini: “Non me lo perdo”. Mezzo gabinetto del ministero della Cultura si precipita in Parlamento perché confida nella grazia di Dannunzino. Il capo di gabinetto di Sangiuliano, Francesco Gilioli, che ora vuole farsi solo dimenticare (dice: “Un capo di gabinetto, mi creda, vuole solo essere dimenticato”) ha più ricci bianchi del solito. E’ invecchiato di dispiacere. Emanuele Merlino, il capo della segreteria tecnica di Sangiuliano, gli occhi di Fazzolari, rende onore ai giornalisti (“anche io, mi creda, ho fatto tutto quello che potevo. Ho cercato di tutelare il ministro”). E’ da giorni che Giuli incontra questi funzionari uno per uno. Li interroga, li seleziona, per comprendere se sono pronti all’avventura fiumana-meloniana, post sangiuliano. Martedì ha incontrato Narda Frisoni, capo di segreteria, un’altra che adesso è da mandare via perché serve sempre una testa da sacrificare, perché si arriva sempre alla fine della storia, al momento Ultimo Tango a Parigi, alla frase di Maria Schneider che di Marlon Brando diceva: “Non so chi è, il suo nome non lo so, non so come si chiama, uno sconosciuto, non lo conosco”.

In Aula, Dannunzino, con il fermacravatte, loda il critico Mereghetti, nominato da Sangiuliano in Commissione ministeriale per la concessione di contributi per progetti cinematografici (andrebbe abolita solo per il titolo) e però, l’equilibrio di genere, spiega Dannunzino, non è stato rispettato ed è “un criterio espressamente previsto”. Sangiuliano non aveva capito come si fa. Il segreto è carezzare, stringere le mani del Pd, prenderla da lontano, come Giuli, che usa frasi come “fagocitiamoci di cultura”. Stordisce gli avversari con il suo lessico mercuriale. Dannunzino illumina, Dannunzino riflette, perché “a poche ore dal mio insediamento mi sono posto degli interrogativi”, “ma ora entriamo in media res” e, ancora,  “noto che gli interroganti pur solerti non hanno notato che…”. Per ascoltarlo le redazioni dei giornali si sono svuotate così come il ministero della Cultura che Palazzo Chigi vuole sgomberare. A Dannunzino sarebbe stato chiesto di fare tabula rasa (la parola   greca non può che gradirla) di allontanare, dopo il G7 della Cultura, consigliere diplomatico, capo di gabinetto, capo di segreteria. Sarà Chigi a indicare i nomi del gabinetto. Sono tre le figure che possono sostituire Gilioli. Uno è Antonio Scino, capo di gabinetto di Pichetto Fratin, un altro, il più accreditato, che ha già lavorato al Maxxi con Giuli, è Francesco Spano. La sorpresa, il nome indiscutibile, sarebbe quello di Ermenegilda Siniscalchi, capo di gabinetto di Fitto, il ministro che Meloni, giustamente rimpiange. Si è detto, ma è una malignità, che Giuli potrebbe mettere mano alle deleghe dei sottosegretari alla Cultura. Ma Dannunzino come potrebbe mai? Come potrebbe  lui che si innamora della penna con inchiostro d’aquila afghana, lui che vive d’arte? Meloni, non ha da temere. Con Dannunzino il governo va verso la vita, vola come il poeta Gabriele: Giuli, il Dannunzino che “osa l’inosabile”, che “riposo non avrà nell’ombra dell’ignoto”, che al ministero saluterà cosi: “Difendete la bellezza! E’ questo il vostro officio!”.

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  • Carmelo Caruso, giornalista a Palermo, Milano, Roma. Ha iniziato a La Repubblica. Oggi lavora al Foglio