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L'editoriale del direttore

No, cari garantisti, il processo a Salvini non ha nulla di politico

Claudio Cerasa

Il carcere a sei anni è ridicolo. Il processo no. Augurarsi che Salvini venga condannato è sciocco. Ma dovesse succedere due suggerimenti: commutare la pena e costringere il vicepremier a studiare i trattati europei (e farsi un giro su una ong)

Diciamoci la verità: si può dire davvero che ci sia un accanimento? Prima i fatti, poi il commento. I fatti li conoscete e riguardano il processo a Matteo Salvini. Il leader della Lega è imputato per sequestro di persona e rifiuto d’atti d’ufficio per aver ritardato lo sbarco di 147 migranti a bordo della nave della ong Open Arms nell’agosto del 2019, quanto ricopriva la carica di ministro dell’Interno con il governo Conte. Sabato scorso la richiesta di condanna per il ministro Salvini è stata formulata dalla procuratrice aggiunta di Palermo, Marzia Sabella, con queste parole: “Il diniego consapevole e volontario ha leso la libertà personale di 147 persone per nessuna, ma proprio per nessuna, apprezzabile ragione… Anche per ciascuna di queste persone ci accingiamo a chiedere la condanna dell’imputato oltre che per difendere i confini del diritto. Per questo chiediamo la condanna alla pena di  anni sei di reclusione”. Piccolo promemoria, per passare dai fatti alle opinioni. Fu Salvini, nel 2019, a dire, su queste vicende, “processatemi pure”. Fu Salvini, nel 2019, a rivendicare, con orgoglio, il diritto del governo di cui era vicepremier a sfidare il diritto del mare. E fu Salvini, nel 2019, a spacciare per protezione dei confini la volontà di spingersi a un passo dal violare alcuni trattati internazionale (nel 2019  il tribunale dei minori di Palermo descrisse il caso della Open Arms come “una situazione che equivale, in punto di fatto, a un respingimento o diniego di ingresso a un valico di frontiera” e il respingimento come è noto è vietato sia dalle leggi italiane sia da quelle internazionali).

Sul caso Open Arms c’è da augurarsi, di cuore, che Salvini sia innocente, e nessuna persona con la testa sulle spalle può augurarsi che il destino di un leader di partito venga deciso da una procura della Repubblica. Ma intorno al caso Open Arms non c’è un tema legato al garantismo, non c’è un tema di persecuzione di un politico, non c’è un tema di complotto contro il governo, non c’è, come ha detto sabato la premier Giorgia Meloni, l’aver svolto semplicemente “il proprio lavoro, difendendo i confini della nazione”. E non c’è, come scritto ancora dalla premier, la volontà di “trasformare in un crimine il dovere di proteggere i confini italiani”. Il tema è diverso, è più importante, perché in ballo, nel caso Salvini, non c’è la volontà di misurare la capacità della magistratura di rispettare la legge di uno stato, la legge fatta da un governo, ma c’è la possibilità di considerare legittimo il tentativo da parte di un ministro di calpestare il diritto internazionale, nel caso specifico il diritto del mare, e di far prevalere la propaganda di un governo (il punto di riferimento fortissimo della sinistra era all’epoca il presidente del Consiglio di quel governo, ovvero Giuseppe Conte, che oggi dice che non c’era e se c’era dormiva e non si è accorto di nulla) sui trattati internazionali. 

Dunque, come dovrebbe essere evidente, non si tratta, sul caso Open Arms, di capire se i magistrati sanno stare al loro posto, ma si tratta di chiedere a un ministro della Repubblica di valutare se un ministro che decide deliberatamente di ignorare la legge per questioni legate più alla propaganda personale che all’interesse nazionale può farlo oppure no. E per una volta, da parte della magistratura, per quanto questa possa essere ideologizzata, non c’è una caccia alle streghe, non c’è disprezzo per il garantismo ma c’è semplicemente il tentativo di far rispettare lo stato di diritto.

Salvini sapeva (a) che in virtù degli articoli 10 e 117 della Costituzione “una norma di rango primario non può essere in contrasto con gli obblighi internazionali assunti dall’Italia” e che (b) quando si parla di diritto del mare vi sono alcuni doveri a cui gli stati devono adempiere che hanno a che fare con il diritto alla vita e il rispetto della libertà e della dignità umana. Dunque, in sintesi estrema, più che vittima della giustizia, ancora una volta, Salvini dimostra di essere vittima solo di sé stesso, della sua propaganda, della sua irresponsabilità, nel senso letterale, nel senso di non voler assumersi la responsabilità di aver cercato di mettere il diritto internazionale su un piedistallo più basso rispetto alle leggi di uno stato. E in un certo senso ha ammesso lui stesso di essere colpevole di quello che ha fatto sia all’inizio della storia, quando si è detto pronto a essere processato per quello che ha fatto, sia alla fine, quando ha accettato di far parte di un governo, quello attuale, che ha scelto di rinunciare al salvinismo sull’immigrazione, pur essendo Salvini al governo, archiviando la stagione dei porti chiusi nella consapevolezza che l’Italia abbia il dovere di gestire il dossier dell’immigrazione non difendendo da sola i propri confini ma chiedendo un aiuto all’Europa.

I pieni poteri che possono aiutare l’Italia a risolvere i suoi problemi sono quelli dell’Europa, non dei ministri che decidono di prendere a schiaffi il diritto internazionale ballando in mutande in una discoteca sulla spiaggia. Sul caso Open Arms c’è da augurarsi, di cuore, che Salvini sia innocente, e nessuna persona con la testa sulle spalle può desiderare che il destino di un leader di partito venga deciso da una procura della Repubblica. Ci permettiamo solo di suggerire al tribunale di Palermo un po’ di creatività: il carcere, i sei anni, sono semplicemente ridicoli, è evidente. Nel caso in cui Salvini dovesse essere condannato sarebbe sufficiente commutare la pena e costringere il vicepremier a passare 1.000 ore a studiare i trattati internazionali e 1.000 ore a girare il Mediterraneo con una ong, gli potrebbe capitare persino di trovarne una che collabora con il governo di cui fa parte, Open Arms compresa. In bocca al lupo di cuore.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.