l'editoriale del direttore
Cosa vuol dire trasformare in oro, e non in chiacchiere, il prezioso endorsement di Musk per l'Italia
Il fondatore di Tesla non è solo una cheerleader del trumpismo: è uno degli imprenditori più famosi del mondo. Numeri utili per occuparsi meno di complottismo e più di innovazione, pensando a quello che l'Italia può fare per se stessa
Bisognerebbe stappare una buona bottiglia di champagne (anzi, di Franciacorta, suggerirebbe Camillo Langone) se il viaggio in America di Giorgia Meloni, compreso il duetto con Elon Musk, fosse servito ad aprire gli occhi alla presidente del Consiglio su quello che è il vero guaio in cui si trova oggi il paese che ha l’onore di guidare. Bisognerebbe stappare una buona bottiglia di champagne, o di Franciacorta, se di ritorno da New York, dove due giorni fa le è stato consegnato un premio importante dall’Atlantic Council, la presidente del Consiglio fosse consapevole del fatto che la grande sfida del nostro paese oggi suona simile a quella lanciata nel 2001 da Tony Blair con il suo “education, education, education”, solo con una sfumatura in più: innovation, innovation, innovation.
Giorgia Meloni è stata molto criticata per aver scelto di farsi consegnare il premio dell’Atlantic Council da Elon Musk. Ma potrebbe essere assai meno criticata se nei prossimi mesi riuscirà a dimostrare che il filo che la destra italiana ha costruito con Musk, che oltre a essere una cheerleader del trumpismo è anche uno degli imprenditori più importanti e ricchi del mondo, potrebbe tradursi in qualcosa di diverso di un abbraccio in birreria tra amici del trumpismo. Il tema riguarda naturalmente Musk, che non è escluso possa investire in Europa anche in una seconda gigafactory dopo quella costruita in Germania. Ma il tema, più in generale, riguarda la capacità dell’Italia di attirare all’interno dei suoi confini capitale umano e capitali sonanti in grado di individuare nel nostro paese una realtà in grado di essere attrattiva per gli investimenti futuri. Musk ha detto che Meloni, dal punto di vista economico, “sta facendo un lavoro incredibile”. Meloni, per dimostrare ai possibili investitori futuri, Musk compreso, che la sua attenzione ai temi dell’innovazione è concreta non solo quando esce dai confini dell’Italia ma anche quando ci ritorna, dovrebbe una buona volta prendere di petto alcuni temi che in questi primi due anni di governo ha scelto, in modo poco lungimirante, di trascurare. Innovation, innovation, innovation: già, ma cosa vuol dire? E soprattutto: cosa manca all’Italia per poter diventare un polo attrattivo per i Musk del pianeta? I numeri relativi allo stato di salute dell’innovazione in Italia sono questi e non sono incoraggianti.
Nel 2023, gli investimenti in venture capital sono crollati del 49,6 per cento rispetto all’anno precedente (dati EY). Sempre nel 2023, in Italia i grandi investitori istituzionali investono appena lo 0,07 per cento dei loro capitali in venture capital contro lo 0,3 per cento che si registra in Europa e il 3-4 per cento che si registra negli Stati Uniti. Nel 2023, gli investimenti in startup e imprese innovative in Italia sono stati pari a 1,17 miliardi di euro e hanno fatto registrare una flessione per ammontare investito del 37 per cento rispetto all’anno precedente (dati Growth Capital). Nei primi sei mesi del 2024 sono stati investiti 376 milioni in startup in Italia (lo scorso anno, nello stesso periodo, i milioni investiti furono 500). Nel 2023 la quota dedicata dall’Italia alla ricerca e allo sviluppo ha toccato quota uno per cento del pil (l’obiettivo fissato dall’Unione europea è il tre per cento).
Ancora nel 2023, la media dei laureti in discipline Stem (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) in Italia è stata del 6,7 per cento, rispetto al 12-13 per cento europeo. “L’Italia – ha scritto alla fine di luglio la Commissione europea, in un rapporto poco pubblicizzato dedicato proprio all’innovazione in Italia – mostra una scarsa attrattiva per gli investitori stranieri per diversi motivi, tra cui, un’elevata tassazione, procedure amministrative lente, pronunciate disparità regionali, un contributo delle grandi aziende al fatturato ancora basso, una quota di valore aggiunto generata da imprese a controllo estero molto basso, risultati insufficienti in tutte le aree legate agli investimenti, in particolare per quanto riguarda gli investimenti delle imprese, che sono al 69,8 per cento rispetto alla media Ue, e con investimenti delle microimprese che si sono ridotti negli ultimi anni”. Occuparsi meno di complottismo e più di innovazione non significa solo creare le condizioni per far sì che l’endorsement di Musk all’Italia possa trasformarsi in un invito a investire nel nostro paese (speriamo solo che gli eventuali investitori una volta arrivati in Italia non siano costretti a cercare un taxi). Significa qualcosa di più: significa spostare l’attenzione della politica non a quello che gli altri possono fare per noi (l’Europa) ma a quello che noi possiamo fare per noi stessi. Innovation, innovation, innovation. E di fronte agli endorsement di Musk per l’Italia, Meloni merita di essere giudicata non per la sua vicinanza a una cheerleader del trumpismo ma per la capacità di trasformare o no in oro (e in champagne e Franciacorta per tutti) l’invito implicito di uno degli imprenditori più famosi del mondo a osservare l’Italia come un paese su cui scommettere.