SECOND LIFE
La resistenza al centro del soldato Calenda. Che fare dopo la morte del Terzo polo
“Votiamo per le proposte della maggioranza che riteniamo giuste, ma siamo saldamente all'opposizione”. No a una stagione referendaria infinita
Il fuggi fuggi da Azione, la fiducia nel centro, contro la polarizzazione estrema destra-sinistra. Il miracolo di ricompattare le opposizioni sul caso Stellantis. Il pragmatismo e l’agenda “draghiana”, l’Ucraina. Il bisogno di una coalizione Ursula anche in Italia, il sogno di rifondare la politica. Intervista
Nel bel mezzo di un periodaccio, si trova ora politicamente Carlo Calenda, leader di Azione e senatore che, negli ultimi mesi, ha vissuto eventi a dir poco avversi: implosione del Terzo polo, non raggiungimento del quorum alle Europee, recente diaspora di ben quattro esponenti del partito (Mara Carfagna, Mariastella Gelmini, Enrico Costa, Giusy Versace). Al punto che, per lui, sono stati scomodati paragoni letterari, cinematografici, storici e musicali, da “La solitudine dei numeri primi” a “Il deserto dei tartari”, dal soprannome “ultimo giapponese” alle suggestioni de “L’autunno del patriarca”, e avanti fino alle vignette di Osho sul Tempo, la più clemente delle quali ritrae un Calenda fisso sul cellulare che dice “prima che me scordo, famme prenotà ‘n tavolo da due per la cena degli iscritti”. Lo incontriamo dunque nella sua ridotta, la sede di Azione a due passi da Piazza del Gesù (la vicinanza con l’ex storica sede della Dc è puramente casuale; nulla ha a che fare con il centro svanito).
Giorni difficili, Calenda?
“Beh, si sapeva”.
Se lo aspettava, il leader di Azione, quello che è stato chiamato “il fuggi fuggi”. Sorte vuole, però, che il giorno in cui parliamo con lui sia anche il giorno del voto per il cda Rai, voto che evidenzia i solchi nel campo largo, con M5s e Avs che partecipano e scelgono il loro consigliere (Roberto Natale), e gli altri fermi sulla non-partecipazione. Neanche un’ora dopo il voto, arriva su X il videocommento di Calenda, con sonoro, ennesimo “vade retro” al campo largo, ferme restando le alleanze con il centrosinistra siglate per le imminenti amministrative in tre regioni. Fatto sta che il volto di Calenda nel video è serio, ma non incupito.
La sorte le dà ragione sul campo largo che non c’è, soddisfazione in un mare amarissimo? (Ancora non sa, Calenda, al momento di rispondere a questa domanda, che il giorno successivo, per un attimo o chissà, il campo largo, proprio su suo appello, si ricompatterà per un’azione comune su un tema molto concreto, la crisi dell’Automotive, caso Stellantis).
“No, la mia è una constatazione: la Rai dove Giuseppe Conte e Avs si fanno i fatti loro prova che il campo largo non esiste. E’ il luogo di tutto ciò che resta, dove si butta tutto ciò che non è governo. Gran fregatura, quella data da Avs e M5s a Elly Schlein. C’era l’accordo di non partecipare in nome della riforma Rai? E loro si sono defilati per avere un consigliere. Ma, se si riavvolge la bobina, si vede che Conte e Avs non hanno partecipato neanche al voto per il rifinanziamento delle missioni Onu – attenzione, non si parlava di armi all’Ucraina. Roba che neanche Franco Turigliatto (senatore di Rifondazione comunista, anticapitalista per antonomasia, ndr). Questa è un’associazione temporanea di persone con obiettivi divergenti che – parlo soprattutto di Conte rispetto a Schlein – non esiterebbero a farsi lo sgambetto, se vincessero le elezioni, nel tentativo di spartirsi quote di potere”.
In un talk-show ora le direbbero: lei però è alleato del centrosinistra in tre regioni prossime al voto.
“Certo, perché in una regione, come in una città, c’è un programma di governo di un candidato governatore o sindaco, e la coerenza della coalizione te la dà ciò di cui la coalizione si occupa. In Emilia non ci si occuperà di armi o missioni. E poi la verità è che il M5s, a livello locale, non conta niente. Dove conta, vedi la Sardegna di Alessandra Todde – che noi non abbiamo mai appoggiato – si vede che cosa succede: pale eoliche bloccate, per non dire del gas. La cultura del M5s è cultura del sottosviluppo. Invece io penso che una cultura dello sviluppo sia centrale per l’Italia. Ma non è soltanto a sinistra, il problema: nella coalizione governativa le posizioni sono talmente confusionarie che Giorgia Meloni non può intervenire su nulla, a livello strutturale. Non si tratta di fare una Finanziaria in cui distribuisci denaro, ma di fare le riforme strutturali di cui il paese ha necessità impellente: rimettere mano al Servizio sanitario nazionale sapendo dove prendere i soldi per farlo o chiedersi come fare con le pensioni, quando, tra quattro anni, avrai un buco di 40 miliardi. Oggi non se ne occupa nessuno perché, a destra e a sinistra, le posizioni sono inconciliabili”.
E però al centro è andata com’è andata: valzer degli addii. Cosa dice a sé stesso in questi giorni?
“Mi dico che noi occupiamo una posizione complicata e anomala: votiamo per le proposte della maggioranza che riteniamo giuste, ma siamo saldamente all’opposizione; non promettiamo cose che non si possano fare; non cavalchiamo vicende private degli avversari. Siamo un partito faticoso, al centro dello schieramento. Difficile farsi capire da chi non è nativo di questa posizione, da chi non ha fatto con noi le battaglie di quando eravamo due parlamentari per cinque anni all’opposizione. Oggi abbiamo 12 parlamentari e 700 amministratori locali, altro film. E quando mi sono chiesto che cosa non abbia funzionato con Carfagna e Gelmini, mi sono risposto che loro non vengono dalla stessa storia politica. L’avevo sottostimata, la loro storia, alla luce della loro rottura con Silvio Berlusconi, del non averlo voluto seguire fino al punto di sfiduciare Mario Draghi. Mi sbagliavo: per la loro storia, resta a loro estraneo il concetto di battaglia idealistica sul merito. Appena il Terzo polo ha cominciato a scricchiolare, è partita la ricerca di un posto di lavoro”.
Enrico Costa, invece, andandosene, ha sottolineato il suo essere liberale, come se Azione da questo punto di vista lo avesse deluso.
“Costa ora si troverà a votare leggi che ha avversato nel campo della giustizia. Spiegherà lui perché. La cosa per me è lineare, ‘troppo lineare’, direbbe Giuliano Ferrara, ma sto e voglio stare dove mi hanno messo gli elettori, facendo politica come l’ho sempre fatta. Questo partito è nato al momento della nascita del governo Conte II per una ragione di coerenza. Il momento storico è talmente drammatico che o prevarrà una stagione fondata sul principio di realtà o l’Italia si disgregherà, così come l’Europa”.
A questo punto però un suo elettore-tipo potrebbe dirle: se l’urgenza era tale, non poteva fare l’accordo con la lista di scopo Renzi-Calenda, per salvare il Terzo polo?
“Se io avessi fatto l’accordo e mi trovassi ora con due europarlamentari, quell’elettore oggi avrebbe davanti la visione di Matteo Renzi che va nel campo largo e mi direbbe: scusi Calenda, ma come ha fatto a fidarsi di nuovo di Renzi? Le liste si fanno insieme quando c’è un progetto politico comune. Ma c’è chi lo ha fatto franare già il primo giorno di legislatura, con un voto a Ignazio La Russa di nascosto, solo per dirne una. Tante volte ho fatto finta di niente, poi uno dice basta”.
Intanto il Terzo polo è defunto.
“Sì, ma io sono rimasto qui, al centro – e non per vezzo, perché mi piaccia troppo la parola o perché io sia nato democristiano. Restare al centro dipende dal fatto che i temi della nostra agenda toccano, da un lato, l’area dei riformisti del Pd, quelli che ora si fingono morti, dall’altro lato l’area liberale del centrodestra. Un esempio: siamo convinti che il controllo delle frontiere debba essere severo e che, prima della cittadinanza, debba venire la regolarizzazione. Non solo: la cittadinanza a mio avviso non può essere concessa in modo indiscriminato, ma dovrebbe essere basata sullo ius scholae, perché implica la conoscenza. Questo pensiero non è coincidente né con la destra né con la sinistra, sono la destra e la sinistra a essersi polarizzate: di qua si dice ‘entrino tutti’, di là invece ‘non entri nessuno sennò si rischia la sostituzione etnica’. Per non parlare del tema Ucraina – siamo gli unici a pensare che Kyiv abbia diritto di difendersi anche colpendo in territorio russo – e della disciplina di bilancio: non si possono tagliare le tasse, tormentone della destra, fino a che non si recupera, e molto, sul lato evasione fiscale. E a sinistra, invece di fare l’elenco impossibile dei desideri per un totale di 70 miliardi di euro, si potrebbe dire alla destra: prima di parlare di accorpamento Irpef, metti mano a sanità e scuola. Noi siamo al centro per la difformità delle nostre posizioni rispetto alla polarizzazione estrema. La nostra agenda è ‘draghiana’ da prima dell’arrivo di Draghi, è fatta di pragmatismo, senza cedimenti alla rumorosa guerra civile perpetua, quella che si è vista per esempio sullo ius scholae. Antonio Tajani ne ha parlato, noi abbiamo fatto una proposta, ed ecco che è partito il treno della raccolta firme online per il referendum sulla cittadinanza”.
Non le piace la raccolta firme online?
“D’ora in poi prevedo un referendum a settimana. Raccogliere firme così non costa niente, ci vuole poco, e questo porterà a una stagione referendaria infinita. E non è un bene. Per assurdo dico: o li fai senza quorum, i referendum, modello Atene – potere legislativo ai cittadini riuniti in assemblea, pur virtuale, e lo dico non essendo fan della democrazia diretta – oppure mantieni il quorum, ma con la moltiplicazione dei referendum sarà sempre più difficile portare l’elettore all’urna e raggiungerlo. Risultato: disillusione, disaffezione ancora più alta”.
Tra poco ci sono le amministrative, e lei è, come si diceva, alleato della sinistra. Ma potrebbe poi spostare il suo centro più a destra? Sa dove si dirigerà?
“Non posso saperlo prima, per noi è sempre stato così, perché valutiamo nel merito. Certo è che se la sinistra mi presenta un Cinque stelle io non lo voto. C’è della noia nel nostro posizionamento, è sempre lo stesso. Poi ci si misura con il consenso: se non lo hai più, se non c’è più lo spazio, amen, ne prendi atto. Io continuerò anche se andrà male. Questo è il lavoro di Azione, un lavoro che in questo momento prende di contropelo la storia, visto il massimo di estremizzazione in Italia e all’estero, con l’astensionismo che cresce anche tra persone informate e nei ceti produttivi”.
Si torna alla morte del Terzo polo: queste persone ci avevano creduto. Non teme ulteriori abbandoni?
“Le persone intelligenti vedono che non siamo noi ad essere andati a sinistra, siamo ancora qui. Forse per loro sarà più facile scegliere, se saranno interessati a ritrovarci. Se però nel frattempo avranno capito che Schlein o Meloni incarnano il loro ideale, pazienza. Noi facciamo quello che avevamo promesso. E se è vero che, come dicevo, andiamo contro la storia, è anche vero che questa è una fase distruttiva per tutto l’occidente. La polarizzazione violenta, per cui scompare, come dice Tony Blair, il centro come luogo delle soluzioni, sta smantellando la democrazia. E noi, per quanto piccoli, vogliamo opporci a questo sfacelo”.
Il voto sull’Ucraina a Bruxelles sembra mostrare, in entrambi gli schieramenti, un ritrarsi, più che un opporsi.
“Il pacifismo, in Italia, è nato in modo ipocrita e si è esercitato in primo luogo contro la costruzione della Comunità europea di difesa, attraverso gruppi finanziati, qui e in Francia, dall’allora Unione Sovietica. Veniva chiamava ‘pacifismo’ quello che era in realtà antiamericanismo. E la storia si ripete. Che cosa potrebbe fare il campo largo sul piano internazionale: disimpegno dalla Nato? Sponda alle tendenze antioccidentali? Eh no, ci sono dei momenti in cui le persone responsabili devono alzarsi e dire: ragazzi, sta venendo giù tutto. E basta con il ritornello sulle colpe dell’occidente. Io sono un proud western man, voglio difendere questa grande civiltà che ha radici di tolleranza nel suo retaggio cristiano e radici democratiche nella cultura greca e romana”.
In vista del 7 ottobre, intanto, sono ricominciate le proteste anti Israele nelle università, anche con toni antisemiti. Che cosa direbbe agli studenti?
“Io sono sempre stato amico di Israele, ho sostenuto il suo diritto a difendersi anche eliminando gli esponenti di Hamas, individualmente, in stati stranieri, ma quello che Israele sta facendo ora non ha niente a che fare col diritto di difendersi. Oggi Netanyahu dice no alla tregua, e Israele è ostaggio di una leadership che, facendosi scudo della rabbia profonda innescatasi dopo il 7 ottobre, sa che resterà in sella finché il paese sarà in guerra. Quindi, finché c’è Netahyahu, Israele sarà in guerra, con una condotta non compatibile con il modo in cui le guerre vengono condotte nella modernità. Certamente Hamas usa come scudi umani i bambini, ma questo non ti autorizza a bombardare i bambini. E’ come se la questione delle vittime collaterali non fosse neppure in agenda”.
Le due situazioni, Ucraina e medio oriente, vengono spesso accomunate nei cortei e nei comizi.
“Quella è ignoranza, non è pacifismo. Parlo di chi dice ‘noi occidentali siamo brutti e cattivi, e la Russia è un posto più giusto’. E’ l’odio di sé che precipita in una serie di contraddizioni: facciamo battaglie Lgbtq+ ma andiamo anche in piazza con i filo iraniani e i filo Hamas. E’ la grande confusione morale dell’occidente. Se gli studenti fanno manifestazioni contro il fascismo presunto della Meloni, ma fanno entrare nei cortei i fan di Hamas che urlano ‘morte agli ebrei’, beh, il caos è grande. Ma, specie sul piano internazionale, non ci si può comportare come negli ultimi trent’anni: buttati a destra, buttati a sinistra, nessuno governerà, lo sappiamo e chissenefrega. Per trent’anni abbiamo avuto coalizioni con dentro di tutto, concludendo zero. A sinistra si invocavano interventi su sanità e scuola: nulla. A destra su tasse, meno stato e meno migranti: nulla”.
E secondo lei qual è l’antidoto?
“Rifondare completamente la politica sul principio di ciò che puoi fare, dei tempi che ci vogliono per realizzarlo, di come si tiene in sicurezza un paese, di come parlare con un linguaggio di verità al cittadino, dicendogli che si deve aspettare un momento di sofferenza. E poi: puntare su una tenuta internazionale da grande paese, non su un’Italietta che dice ‘siamo per le armi all’Ucraina’, e poi però il Pd dice ‘non proprio per le armi, siamo per mandare del materiale’, e la Meloni pensa ‘sì, va bene’, ma poi siccome forse negli Usa vince Donald Trump non va alla conferenza di Joe Biden. Per non dire della Lega, ancora gemellata al partito di Putin, o di Forza Italia: Tajani fa un sacco di chiacchiere sull’importanza dell’asse atlantico, però poi dice ‘non vogliamo entrare in guerra con la Russia’. Ma che c’entra? Stiamo parlando di dare armi, non di andare noi a combattere”.
A proposito di governo Meloni. Qualcosa di buono c’è?
“Premesso che Meloni resta un capo fazione che non si tira fuori dall’internazionale della destra becera, tanto da farsi premiare da Elon Musk, che deve avere pessimi rapporti con Francia, Spagna e Germania perché sono paesi governati da persone non di destra, che ogni volta che si rivolge al paese non riesce mai a parlare a tutto il paese – beh, detto questo, Meloni ha preso tutte le promesse che aveva fatto nella sua carriera politica e le ha buttate dalla finestra. E per fortuna. Alcune cose le ha fatte bene: basta superbonus, basta reddito di cittadinanza per chi può trovare un lavoro, appoggio a Kyiv pur con le suddette riserve. Ma Meloni ha due grandi problemi. Uno: non sta facendo nulla sui temi chiave: scuola, sanità, politica industriale. Due: la classe dirigente”.
Di chi parla, in particolare?
“La classe dirigente di Meloni, con alcune eccezioni, è composta da persone che non hanno mai governato e questo non aiuta. Prendo il caso Sangiuliano, ma non per via della signora Boccia, che non mi è mai interessata, e il caso Lollobrigida: i due, ex ministro e ministro, mi sono sempre parsi tronfi se non palloni gonfiati. Peccato. Perché, da destra, sulla cultura, per dire, si poteva puntare alla riscoperta dell’identità italiana con mostre che portassero i ragazzi a conoscere la civiltà romana, senza dire, come faceva Sangiuliano, che Dante era di destra, che lui avrebbe rifatto l’universo mondo cacciando chiunque, citando Croce ogni sette minuti, e lo dico essendo cresciuto con Croce. Insomma, una classe dirigente da operetta, e uno scenario tra Totò e Charlie Chaplin quando fa Hitler e Mussolini”.
Ora c’è un altro ministro della Cultura
“Penso che Alessandro Giuli abbia altre caratteristiche rispetto al predecessore, e che farà altro, potendolo fare”.
Con qualche ministro parla?
“Con Carlo Nordio. Ma parlo d’altro: è churchilliano come me”.
Ci dica di Giancarlo Giorgetti
“Nel suo caso, più che di lui, si tratta del Mef. Il Mef è una cosa strana; quando vai al Mef ti viene detto, in sostanza: qui si decide se fallisce l’Italia o no, tu vuoi essere il ministro che fa fallire l’Italia? Ovvia la risposta. E infatti tutti quelli che vanno al Mef finiscono per apparire moderati. Giorgetti è stato tante cose. Per me, però, l’orologio si è fermato al Giorgetti che sfiducia Draghi da ministro di Draghi. Imperdonabile, insormontabile”.
Poi abbiamo Adolfo Urso, e il caso Stellantis. Lei, Calenda, in questi giorni ha lanciato un appello alle opposizioni, chiedendo di fare insieme una battaglia sulla crisi che investe l’Automotive, e per fare sì che John Elkann risponda alla convocazione della commissione Attività produttive. Intanto propone di appoggiare lo sciopero dei sindacati del 18 ottobre e di fare una proposta unitaria al governo, da inserire nella legge di Bilancio. (Come si è visto, poi tutte le opposizioni hanno risposto positivamente).
“Sono anni che insisto su questo tasto. Ma il ministro Urso non so che cosa stia facendo, a parte annunciare tavoli. La situazione è gravissima: gli Elkann, su garanzia pubblica, si sono pagati il dividendo e sono scappati dall’Italia, nel silenzio della sinistra e con la copertura di alcuni giornali di sinistra. E Urso a mio avviso si è fatto prendere in giro. Resta il bollettino di guerra: cassa integrazione, fermo produzione, erbacce davanti a Mirafiori. Ma a nessuno sembra fregare niente, parliamo solo di cazzate”.
Ci dica cosa pensa di Matteo Salvini ministro dei Trasporti.
“No comment, sarebbe come commentare Danilo Toninelli”.
Problemi di classe dirigente li ha anche la sinistra?
“Azione ha fatto una lunga ricerca, anche fuori dal Parlamento, per trovare persone competenti, come Giuseppe Zollino per l’energia, Walter Ricciardi per la sanità, Maria Pia Bucchioni per la scuola. Il Pd avrebbe una buona classe dirigente: sindaci, presidenti di regione, gente con cultura di governo. E però quella classe dirigente riformista è stata impacchettata e mandata a Bruxelles a fare la muffa, per non dire della non lusinghiera scena degli europarlamentari che non votano sull’Ucraina. Poi per forza l’agenda del centrosinistra la fanno Avs e M5s: dicono qualcosa, mentre il Pd tace. Solo che poi quella di Avs e M5s è un’agenda pericolosa per il paese: no gas, no nucleare, viva l’eolico, viva il green deal, porte aperte a chi vuole venire, abbasso i fascisti un tanto al chilo. E il Pd muto, se non per dire cose come: viva la mamma, più soldi per tutto e tutti, viva la diversità. Il Pd che governava non parlava così”.
Ha nostalgia di Renzi, per caso?
“Neanche nel momento di maggior polemica con Renzi ho criticato il Pd di quella stagione riformista. Oggi? Mah. Si prenda l’autonomia, fatta peraltro dalla sinistra. La spesa sanitaria pro capite della Sicilia è uguale a quella della Lombardia. Il problema il sud ce l’ha ora, altro che autonomia. La domanda è: qual è il piano del Pd? Il mio è: no alla gestione della sanità per le regioni del sud che non la sanno gestire e la fanno diventare un gigantesco centro di distribuzione di quote elettorali. Al sud è tornato il feudalesimo. Il Pd che vuole fare? Sappiamo cosa vuole fare il M5s: creare ancora più feudalesimo, con i sussidi. Per dirla come Nanni Moretti: caro Pd, non dire una cosa di sinistra, dì una cosa. Dov’è andato il partito che esprimeva uomini come Paolo Gentiloni? E perché Gentiloni non dice una parola, davanti a questo strazio?”.
Magari non gliela fanno dire, nel senso che sono interessati, al momento.
“Ma insomma, hai fatto il presidente del Consiglio, hai fatto il commissario europeo, ti pare che non hai l’autorevolezza per lanciare l’idea di una conferenza programmatica, in modo che il Pd per primo si dia un serio programma di governo, con tutti i numeri? Non lo devo fare io. Cioè, posso farlo e lo abbiamo fatto, ma abbiamo il 3 per cento”.
Se si trovasse a un tavolo con Schlein, Bonelli, Fratoianni, Conte, Renzi, cosa direbbe?
“Apro la finestra e mi butto? Scherzi a parte, spiace pensare che il Pd, ai tempi del Conte II, invece di ammazzare definitivamente il populismo dei Cinque stelle, gli abbia regalato una nuova stagione. Il problema di Conte è tornare a Palazzo Chigi, e come già si vede farà la guerra a Schlein, guerra a chi è più di sinistra e più populista, guerra che renderà orfani molti elettori del centrosinistra. A quegli elettori noi vogliamo dare una casa”.
Quindi oggi ha meno parlamentari, ma potrebbe in prospettiva avere più voti, secondo lei?
“La mia prospettiva è sempre la stessa: riprendere i voti degli italiani che hanno votato centrodestra o centrosinistra ma sono a disagio. Voti liberali, democratici, filo-occidentali. Le persone sono stanche, tanto più che Meloni sta facendo quello che hanno fatto tutti finora: dare un po’ di soldi. Ma chi mette a posto nel profondo la Pa, i servizi, chi fa un piano industriale 4.0 che funzioni? Ecco, questo è il nostro spazio politico. Può valere il 3 per cento, il 7, l’1, dipende da tante circostanze”.
Gli imprenditori che vi avevano in simpatia, vi sostengono ancora, dopo la morte del Terzo polo?
“Ma certo, la campagna elettorale europea l’abbiamo fatta così. Per esempio Alberto Bombassei ci ha sempre sostenuto. Dopodiché io non faccio un progetto per gli imprenditori, ma soprattutto per chi dona il 2 per mille e ogni anno si iscrive. Tra l’altro non accettiamo sostegno da imprenditori che non siano di mercato”.
Sembra fiducioso, nonostante la batosta.
“Penso sia un dovere storico, il nostro. La politica si fa in connessione alla storia, sennò diventa politichetta. Ed è la connessione con la storia a determinare la nostra linea, che è quella di dire anche cose spiacevoli, se è per il bene del paese. La mia è un’agenda riformista, forte sui diritti sociali, perché si parla al momento solo di diritti civili. Ho avuto a Milano recentemente una discussione con i ragazzi di Azione: mi parlavano di legalizzazione della cannabis. Ho fatto notare che, fuori dalla Ztl, il 25 per cento dei loro coetanei non può comprare libri, iscriversi all’università, andare in gita scolastica. Bisogna farsi le canne perché questa è la stagione dei diritti? Bene, ma questa dovrebbe essere prima di tutto la stagione dei doveri. E il dovere è battersi per i diritti sociali, per prima cosa”.
Fosse al posto del Pd, cosa direbbe?
“Che l’alfabetizzazione è una priorità, come lo è il poter curare un parente anziano nel pubblico. Che non si può astenersi sul tema Ucraina. Che il gas serve, e il green deal deve essere attuato in modo da non ammazzare il settore manifatturiero, per cui siamo i secondi in Europa. Magari il Pd dicesse questo”.
Ma parlerà con qualcuno nel Pd, no?
“Ma certo. Con Guerini ho un ottimo rapporto, ma parlo anche con Schlein, come a destra parlo con Meloni. Siamo molto trasversali, perché entriamo sempre e solo nel merito”.
Se qualcuno, al confine con la destra, dicesse le cose che lei ha detto finora, si avvicinerebbe?
“Dico che questo paese avrà presto bisogno di un sistema proporzionale e di una larga coalizione di partiti europeisti. O si mette in piedi una coalizione Ursula, pronta a fare le cose che si devono fare, oppure...”.
Oppure?
“Oppure, alla prima crisi finanziaria, a mio avviso dietro l’angolo, l’Italia non potrà coprire il suo debito, perché i tedeschi non permetteranno di ricorrere al denaro della Bce. E allora si richiamerà Mario Draghi o si chiamerà Fabio Panetta o chi per lui. Un’ignominia per una politica incapace di fare da sola quello che va fatto”.
In questo momento di amarezza politica, lei sui social appare felice nelle foto con sua figlia maggiore, 35 anni, da cui la separano solo 16 anni, 16 come quelli che la separano da sua madre. Ci dica come si sta nella sua grande famiglia dalle età sovrapposte e ravvicinate.
La mia famiglia è un enorme melting pot: la figlia più grande ha appunto 35 anni, la più piccola 11. Mia madre Cristina ha appena fatto un film, ‘Il treno dei bambini”, una bella storia di solidarietà postbellica; mia zia Francesca è andata a Venezia con un film su mio nonno Luigi che mi ha commosso, ‘Il tempo che ci vuole’. La mia vita fuori dalla politica, un lavoro totalizzante che però non entra mai nel privato, è ricchissima. La famiglia per me è un grande polmone, anche intellettuale. Ho portato tutti a Ostia antica nel weekend, e l’estate scorsa in Turchia. Ecco, il trait d’union tra pubblico e privato per me forse è la passione per la storia. Faccio politica perché sono appassionato di storia, fin da quando ero bambino: mi piace la storia, e mi piace far parte della storia”.
Nel suo “polmone” familiare che cosa dicono della morte del Terzo polo?
“Mio nonno Luigi era azionista; mio nonno Carlo, ambasciatore, era repubblicano. Sono figlio di quella storia. E sono cresciuto tra idee politiche che, anche se minoritarie, hanno influito. Quello che mi dicono in famiglia è: influisci, e fai politica solo fino a quando c’è un elemento ideale. Io l’elemento ideale ce l’ho ancora molto forte, e avevo messo in conto, quando ho fondato Azione, che ci sarebbe stato un periodo lunghissimo in cui saremmo stati quattro gatti. Poi non è stato più così, poi abbiamo preso un cazzotto. Pazienza. Si cade, ci si rialza, si combatte più di prima. Ed è quello che farò, fino a fine legislatura”.
E poi?
“E’ chiaro che gli italiani potrebbero dire no, questa cosa non la vogliamo, vogliamo continuare a tirarci le pietre, vogliamo continuare con i Totò Cuffaro in Sicilia. Bene, ma allora poi non vi lamentate quando la sanità non funziona. Lo so, è un messaggio impolitico, ma vorrei dirlo: non è che noi stiamo così perché i politici fanno schifo, stiamo così perché i cittadini non riescono a votare in modo consapevole. Votano come stessero in curva allo stadio? Beh, assumessero le proprie responsabilità. Alle Europee abbiamo avuto vari dati che indicavano che molte persone si sono astenute perché il voto era previsto solo nel weekend, senza appendice del lunedì. Se siamo ridotti così, è finita. Per questo sottolineo il rischio della valanga di referendum, potenzialmente fallimentari se troppo frequenti: se aumenta la disaffezione e l’astensione, la gente penserà che votare non serve più a nulla, e se alle prossime politiche andremo sotto al 50 per cento di affluenza, qualcuno potrebbe dire: signori, la democrazia non funziona, il Parlamento non è legittimato, visto che vota meno della metà degli aventi diritto. E’ questo il vero rischio democratico. Non Giorgia Meloni, come non lo era Matteo Salvini”.