Cosa vuol dire non rassegnarsi al bipopulismo. Il libro di Marattin
In “La missione possibile. La costruzione di un partito liberal-democratico e riformatore” l'autore si interroga sulle cause della stagnazione della produttività e della crescita e su come tale problema potrebbe trovare una risposta politica. Si sforza di fondare l’alternativa liberal-democratica all’interno di una visione del futuro
Esiste davvero una prateria al centro dello schieramento politico, pronta a essere occupata da un partito liberal-democratico? L’onesta risposta di Luigi Marattin è: dipende. Ne parla diffusamente nel libro “La missione possibile. La costruzione di un partito liberal-democratico e riformatore” (Rubbettino). Il volume i divide in due parti: nella prima, l’autore si interroga sulle cause di quello che chiama “il problema italiano”, cioè la stagnazione della produttività e della crescita; nella seconda ragiona invece su come tale problema potrebbe trovare una risposta politica. Marattin argomenta infatti che di ciò vi è la necessità, visto che la politica oggi sembra in grado di declinare diagnosi erronee: a sinistra ci si crogiola nell’illusione che “pubblico è bello e gratis” mentre a destra si pensa che tutte le nostre magagne derivino dall’eccesso di apertura e dalla globalizzazione.
Nell’esame delle cause, Marattin parla più da economista che politico. Tuttavia, egli è ben consapevole che la partita del consenso non si gioca sul campo del modello più raffinato o della regressione più significativa: richiede un packaging fatto di ideali, valori e visione del mondo. In questo senso, Marattin dà una lettura “ideologica” del dibattito italiano: forse il termine non gli piacerà, eppure si tratta del principale pregio del libro.
Marattin non si limita a tracciare il solco tra le politiche pro-crescita e quelle anti-crescita, né a illustrare le ragioni per cui il declino del nostro paese risale agli anni Settanta e Ottanta, quando attraverso la droga monetaria e fiscale cercammo di arginare ed evitare le trasformazioni strutturali che stavano travolgendo gli altri paesi. Il risultato di quella politica è un debito pubblico immenso e un paese ingessato, che – a dispetto dei tentativi e delle buone intenzioni – finora non sono stati sanati. E non lo sono stati proprio perché le forze politiche che si sono alternate a Palazzo Chigi davano una lettura scorretta dell’origine dei problemi. Da cui derivavano scelte dannose. In più, ed è un altro merito, si sforza di fondare l’alternativa liberal-democratica all’interno di una visione del futuro. Non prende scorciatoie: lo conferma la scelta di non rivendicare una alcuna “agenda Draghi”, a cui invece spesso si appellano le formazioni centriste, ben sapendo che quella dell’ex premier è un’esperienza di governo limitata e irripetibile, ma certo non traccia i contorni di una posizione politica.
Marattin propone quindi un coerente programma per il governo del paese, soffermandosi sulla collocazione internazionale del paese (l’Occidente) e i valori dell’uguaglianza delle opportunità, della facoltà di coltivare i propri talenti e del merito. Questa impalcatura teorica (o, appunto, ideologica) si traduce per Marattin in un programma che è, grosso modo, quello che ci si può aspettare da lui su temi quali il fisco, il welfare, l’energia nucleare, la concorrenza, la riorganizzazione del settore pubblico. Ci sono però due aspetti che meritano di essere citati: uno su cui Marattin è particolarmente coraggioso, l’altro su cui è reticente. Discutendo del rapporto tra teoria e pratica, spiega che non sempre l’opzione teoricamente migliore è praticabile, e dunque il riformista deve perseguire un “second best”. Cioè sacrificare la purezza al miglioramento incrementale. Lo fa in aperta polemica col fuoco amico dei “liberisti sul divano col cocktail in mano” (parafrasando l’espressione di Domenico Arcuri, sebbene in quel frangente il tempo e i fatti abbiano dimostrato che non erano i liberisti a sbagliare). Comunque, sul pragmatismo e il settarismo Marattin ha tutte le ragioni. E lo dimostra con vari esempi, parlando sia di riforme che hanno avuto successo (la riduzione dei costi di manutenzione degli uffici giudiziari attraverso la riunificazione delle decisioni di finanziamento e spesa) sia che non ce l’hanno avuto (l’aumento delle licenze taxi). Solo che poi, nel lungo e interessante capitolo sulle riforme istituzionali, cade lui stesso vittima della logica che condanna. Egli, cioè, spiega perché il paese ha bisogno di un federalismo responsabile e di riforme istituzionali che ne migliorino l’assetto e l’effettività dell’azione del governo. E offre argomenti convincenti per cui le due riforme oggi sul piatto – autonomia e premierato – sono ben distanti dall’ottimo. Ma esse rappresentano un miglioramento o un peggioramento rispetto allo status quo? Al lettore rimane la curiosità.
Il volume si conclude con assennate considerazioni sulla necessità di restituire dignità e forma all’organizzazione partitica. Questo libro rappresenta un importante contributo di un intellettuale che si è sporcato le mani e, contemporaneamente, di un politico che è consapevole dei vincoli della realtà e dell’economia. In questa seconda veste, Marattin sta combattendo una sua battaglia solitaria – di fatto – fuori dai partiti: “La missione possibile” è il titolo ottimista di un uomo consapevole di tutte le difficoltà ma convinto che qualcuno si debba fare carico di dare voce a componente orfana e afona del panorama politico italiano.
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