L'intervista

“Senza un cessate il fuoco, Unifil non può restare”. Parla Roberta Pinotti

Gianluca De Rosa

L'ex ministro della Difesa distingue i due piani: "Da un punto di vista operativo con il conflitto in corso la missione non può andare avanti, ma l'obiettivo politico deve essere quello di fermare le ostilità"

“E’ fondamentale che sul destino di Unifil le Nazioni Unite assumano un orientamento quanto prima. Una missione d’interposizione può rimanere invariata solo se c’è una volontà delle parti di fermare il conflitto, altrimenti è evidente che diventa molto complicato”. Roberta Pinotti, dirigente del Partito democratico ed ex ministro della Difesa riflette con il Foglio su quanto sta accadendo nel sud del Libano dopo l’attacco dell’esercito israeliano ad alcune basi della missione delle Nazioni Unite Unifil. Entro la prossima settimana, l’Onu deciderà cosa fare: restare? Spostarsi come chiede Israele? Per adesso, diceva ieri il portavoce delle Nazioni Unite Farhan Haq, nessuno spostamento. Sempre ieri però Jean-Pierre Lacroix, capo delle forze di pace Onu, ha spostato 300 militari da alcune tra le più piccole del 50 basi che si trovano sulla Blu Line, il confine conteso tra Libano e Israele, a quelle più grandi.  “Se ci fosse un cessate il fuoco la missione potrebbe continuare a funzionare nelle stesse modalità, se questa volontà non c’è bisognerà tenere conto di quella che è la situazione sul campo. Il ruolo della comunità internazionale deve essere quello di chiedere con maggiore forza un cessate il fuoco. Con l’attacco deliberato a Unifil di due giorni fa si è rotto qualsiasi argine”.

 

Immagina, come chiede ad esempio il premier spagnolo Pedro Sánchez, che gli alleati possano persino minacciare l’embargo alle forniture belliche allo stato ebraico? “Non avendo oggi responsabilità istituzionali preferisco non dare un’indicazione specifica,  sottolineo solo che la forza impressa fino a ora nelle richieste a Israele non ha funzionato”. Unifil dice che sono state colpite torri di controlli, sistemi di videosorveglianza e illuminazione per ragioni di tipo strategico-militare in una zona che per Israele è ormai una zona di guerra. “Sono ricostruzioni possibili, ma sono ipotesi, e comunque non giustificano l’attacco”. Si dice anche di più. Israele sta facendo quello che la missione Unifil non è riuscita a fare: disarmare Hezbollah ed evitare attacchi che spesso partono da aree non distanti da quelle in cui si trovano i 10 mila militari della missione internazionale. Anche il ministro della Difesa Guido Crosetto ieri diceva: “E’ un anno e mezzo che io chiedo il cambio delle regole d’ingaggio e dico che se non le cambiamo e non applichiamo la Risoluzione 1701 prima o poi arriverà qualcun altro, purtroppo è quello che sta accadendo”. Dice Pinotti: “E’ vero che nella risoluzione 1701 si dice che solo l’esercito libanese può detenere legalmente le armi, e che dunque Hezbollah deve essere disarmata, ma non sono direttamente i soldati di Unifil a doverlo fare: è un compito che la risoluzione assegna alle Lebanese Armed Forces (Laf). Bisogna ricordare come questa missione è nata, nel 2006. Io ero presidente della commissione Difesa della Camera, il conflitto era ancora in corso, ma su pressione internazionale i contendenti avevano accettato di concludere le ostilità. Per questo Unifil si trova sulla Blu Line. Il contingente internazionale controlla questa zona cuscinetto a sud del fiume Litani, dove da una parte ci sono gli insediamenti israeliani e dall’altra c’è una zona dove è molto forte Hezbollah. In tutti questi anni ha evitato che piccoli focolai potessero dar vita a nuovi conflitti. Ogni volta che partivano colpi di mortaio da una parte o dall’altra, o c’erano sconfinamenti, il contingente interveniva: chiamava le delegazioni delle due parti che arrivavano a Naqoura, dove c’era una sala con due entrate diverse, parlavano entrambi con i mediatori militari, dicevano le loro ragioni, e lì si cercava una soluzione. Oggi lo scenario è cambiato, ma Unifil continua a non poter entrare in una casa e disinnescare un’arsenale, per intenderci. Se si vuole che possa fare questo devono cambiare le regole d’ingaggio della missione”.

 

Sul mancato disarmo di Hezbollah ha pesato anche la crisi economica e politica che il Libano sta attraversando? “Sì. Ancora oggi non è stato eletto il successore del presidente Aoun, in un paese pluriconfessionale che si regge su un equilibrio complesso: con un presidente cristiano maronita, un primo ministro sunnita e un presidente del Parlamento sciita, l’esercito era diventato l’unica occasione di miscelamento. Purtroppo l’esplosione nel porto di Beirut, la crisi economica e la crisi migratoria, con oltre 1,5 milioni di rifugiati siriani che si sono aggiunti agli storici profughi palestinesi, ha messo il paese in uno stato di fragilità ancora maggiore: la funzione che era stata immaginata per le Laf oggi mi pare molto difficile”.

Di più su questi argomenti: