lo smemorato di rep.
Giannini per attaccare il governo dà i numeri sul cuneo fiscale, che Meloni ha tagliato più di Prodi
L'editorialista di Repubblica s'aggiusta i fatti per sostenere delle tesi che non hanno fondamento pur di andare contro alla premier e all'esecutivo. Peccato che i dati dicano il contrario
Il tempo addolcisce i ricordi e con il passare degli anni tutti noi tendiamo a rimpiangere i bei tempi di una volta. Però, almeno in economia, i numeri aiutano a evitare che la nostalgia deformi la memoria. E’ un po’ questo tradimento che ha giocato un brutto scherzo a Massimo Giannini, che in un editoriale su Repubblica di sabato scorso dal titolo “Grande è la confusione sotto il cielo della manovra” ha fatto un paragone tra il taglio al cuneo fiscale di Prodi e quello di Meloni.
Prima, l’ex direttore della Stampa accusa la premier di dire “mezze falsità” sulle tasse perché “lo sgravio contributivo per i dipendenti è una conferma degli sconti di Draghi”. E poi confronta la decontribuzione di destra Meloni-Giorgetti con lo sgravio fiscale di sinistra Prodi-Visco del 2006-2007. “Il secondo Prodi del 2006 varò un maxi taglio del cuneo fiscale sui salari da 10 miliardi, più del doppio rispetto allo sconto meloniano”, scrive Giannini. Queste critiche alla Meloni sono sempre nell’ambito delle “mezze falsità”, anche se usare il termine “mezze” è un po’ un’esagerazione.
Non è affatto vero, infatti, che lo sgravio contributivo del governo Meloni sia solo “una conferma degli sconti di Draghi”. Il governo Draghi, con la legge di Bilancio per il 2022, aveva inizialmente previsto un esonero contributivo dello 0,8 per cento. Successivamente, ad agosto 2022, l’esecutivo guidato dall’ex presidente della Bce, con il decreto Aiuti-bis, ha alzato lo sgravio a 2 punti percentuali. Il governo Meloni ha prima alzato, con la legge di Bilancio per il 2023, la decontribuzione al 3 per cento per i redditi fino a 25 mila euro e, pochi mesi dopo, a metà 2023, ha aumentato ulteriormente l’esonero da 3 a 7 punti per i redditi fino a 25 mila euro e da 2 fino a 6 punti per i redditi fino a 35 mila euro. Una riduzione dei contributi a carico dei lavoratori superiore a quelle che erano le richieste dei sindacati, che scioperavano contro il governo Draghi perché volevano un taglio di 5 punti e che hanno poi scioperato comunque (Cgil e Uil) contro il governo Meloni quando il taglio è diventato di 7 punti. In ogni caso, Meloni non ha semplicemente “confermato gli sconti di Draghi”, ma li ha più che triplicati.
Se la memoria a breve non aiuta Giannini, le cose non vanno meglio con quella a lungo termine. Perché non è vero che il governo Prodi varò un “maxi taglio del cuneo fiscale sui salari da 10 miliardi” e soprattutto non è vero che era “più del doppio rispetto allo sconto meloniano”. Il tema non è tanto lo stanziamento, che all’epoca del governo Prodi fu di circa 7 miliardi di euro, una somma che anche attualizzata all’inflazione è inferiore ai quasi 11 miliardi mobilitati dal governo Meloni. Ma è la distribuzione di quelle risorse. Nel 2006, non si trattò, infatti, come scrive Giannini, di un “taglio del cuneo fiscale sui salari” ma di un taglio del costo del lavoro. Non si tratta di un dettaglio semantico, ma di una differenza sostanziale su chi ha percepito quei denari. Delle risorse mobilitate allora, Prodi e il viceministro dell’Economia Vincenzo Visco decisero di dare il 60 per cento alle imprese e il 40 per cento ai lavoratori. Nei confronti delle prime si agì prevalentemente attraverso una deduzione del costo del lavoro dalla base imponibile dell’Irap, mentre nei confronti dei secondi attraverso un mix di misure (deduzioni, detrazioni e carichi familiari) che agiva sull’Irpef. Ai lavoratori andarono solo 3 miliardi del “taglio del cuneo”, tutto il resto alle imprese. Il beneficio medio di quell’intervento per un dipendente fu di circa 450 euro l’anno, ma con molta variabilità. Perché i benefici fiscali dipendevano da molte variabili, come appunto i carichi familiari. Per i single, infatti, non c’era praticamente alcun beneficio (qualche decina d’euro al mese). Per giunta, questi stessi benefici venivano erosi dal contemporaneo aumento di 0,3 punti percentuali dei contributi previdenziali a carico dei lavoratori. Nel caso degli autonomi, l’effetto complessivo della finanziaria del governo Prodi fu di un aumento della pressione fiscale, ovvero di riduzione del reddito disponibile.
La decontribuzione del governo Meloni, per cui il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti sta ancora cercando le coperture, costa invece circa 11 miliardi di euro. Sono soldi che vanno al 100 per cento nelle tasche di circa 11 milioni di lavoratori (l’80 per cento dei dipendenti) con reddito medio-basso, con un beneficio che arriva a un massimo di circa 1.600 euro l’anno alla soglia 25 mila euro di reddito e di 1.900 alla soglia di 35 mila euro (l’importo medio è di circa 100 euro al mese). Secondo la Banca d’Italia la decontribuzione Meloni-Giorgetti ha ridotto la disuguaglianza e secondo l’Upb ha aumentato la progressività del sistema fiscale. Un impatto sicuramente superiore al taglio del cuneo Prodi-Visco, che era prevalentemente rivolto alle imprese.
Ma d’altronde per sapere che quella del governo Prodi era tutt’altro che una misura incisiva basta leggere le cronache dell’epoca. “Il sindacato si sta rendendo conto che, della promessa riduzione dell’odiato cuneo, gli oltre 18 milioni di lavoratori dipendenti non intascheranno un solo euro – si legge in un articolo del 19 ottobre 2006 –. In molti casi si tratterà di un risparmio di qualche decina di euro al mese. In qualche caso si tratterà di un aggravio di qualche centinaio di euro al mese. Il danno, per tutti, è che non c’è nient’altro da risparmiare”. Il giornale era la Repubblica, l’autore Massimo Giannini. Nostalgia canaglia.