(foto Ansa)

dopo la nomina di spano

Sputiamo su Gramsci. Contro la destra che gioca a fare la sinistra

Andrea Venanzoni

Libri e pamphlet su Gramsci. Convegni su Gramsci. Videogiochi con Gramsci. Tatuaggi di Gramsci. Quella della destra è una solfa, un mantra bolso, stanco, privo di qualunque fascino, con l’unico concreto risultato di mettere poi nei posti di potere tutto ciò che gli elettori pensavano di aver allontanato con il loro voto

Correva l’ormai lontano 1970 e la femminista Carla Lonzi gettava in pasto al dibattito pubblico il suo agile saggio ‘Sputiamo su Hegel’. Cinquantaquattro anni dopo, sarà il caso di procedere ad un’altra sputacchiata metaforica e metafisica; quella contro Gramsci. Non se ne può più, oggettivamente. Perché poi questa rincorsa sbilenca, usando il totem Gramsci per essere accettati nei salottini che contano, porta all’accecamento decisionale; così il neoministro della cultura Alessandro Giuli, tra una “infosfera globale” che essendo infosfera è globale in re ipsa e una “luce meridiana”, non trova di meglio che nominare ai vertici del Ministero della cultura, nel delicatissimo ruolo di Capo di gabinetto dopo la defenestrazione di Gilioli, l’avvocato Francesco Spano, segretario generale del Maxxi e soprattutto già direttore di quell’UNAR che rappresenta, da sempre, l’incubo istituzionale di qualunque vero conservatore e pure di qualunque liberale/libertario.

 

Ci si legga il fenomenale ‘Le ragioni della discriminazione' di Walter Block, edito da Liberilibri, altro che l’UNAR e le campagne di sensibilizzazione, a suon di soldi pubblici, contro le discriminazioni. Spano ha un profilo perfetto da Zan in versione grand commis, negazione ontologica di certe parole d’ordine della ‘destra’ di governo. La quale, Giorgia Meloni in testa, per anni ha tuonato proprio contro l’UNAR e contro la sua stessa ragion d’essere. Delle vicende che portarono Spano alle dimissioni nel 2017 dall’incarico direttoriale poco rileva, perché profili giuridicamente distorti in quella storia di finanziamenti pubblici, a mezzo di regolare bando, ad associazioni LGBT, mi fermo qui con le lettere per precisa scelta, in odore di libertinaggio notturno e di afrori da dark room non se ne possono davvero eccepire. Poco interessanti, e come al solito del tutto controproducenti, le polemiche moralistiche animate dai soliti noti, perché i vizi non sono crimini, come insegnava il buon Lysander Spooner e di certo quei soldi pubblici non vennero assegnati per il libertinaggio, quanto per attività di profilo culturale e istituzionale.

Potremmo certo questionare il senso stesso della erogazione di denari pubblici per questo genere di cose, ma lasciamo stare. Per ora. Del pari, non sono in alcun modo in questione l’esperienza o le capacità amministrative di Spano né il suo eccellente curriculum, quanto il suo profilo in termini di anche solo vaghissima consonanza politica con il governo in carica. E in questo il caso del Ministero della cultura è solo punta dell’iceberg e dato paradigmatico, perché basterebbe spulciare le sezioni ‘amministrazione trasparente’ e i curricula di molti vertici ministeriali per scoprire che di consulenti, consiglieri, esperti, capi di uffici vari ascrivibili organicamente alla sinistra ce ne sono molti. Tutti loro scarsamente legati agli attuali indirizzi del governo in carica. Certo, sempre che indirizzi, di qualunque genere, ce ne siano. Perché a furia di guardare dentro Gramsci, Gramsci guarderà dentro di te, cari ‘destra’ di governo e ministro Alessandro Giuli.

 

Libri e pamphlet su Gramsci. Convegni su Gramsci. Videogiochi con Gramsci. Tatuaggi di Gramsci. Manca solo il lanciafiamme, adorato dai bambini e poi la parodia di ‘Balle spaziali’ sarà totale. Una solfa, un mantra bolso, stanco, privo di qualunque fascino. Strette di mano autoreferenziali gorgheggiando e solfeggiando di Gramsci, con l’unico concreto risultato di mettere poi nei posti di potere tutto ciò che gli elettori pensavano di aver allontanato con il loro voto. Una destra incolore, dismessi i funerei panni della nostalgia, ha scoperto di essere rimasta nuda, come un Homer Simpson con zerbino indosso: solo che assieme alla nostalgia, nella abusata ma realissima metafora del bambino e dell’acqua sporca, si sono gettati via pure quei riferimenti che avevano contribuito a definire una architettura del pensiero di destra e una sua pragmaticità. Quella forma che tra Ottocento e Novecento si era inerpicata lungo la dorsale delle riflessioni di vetta: pensieri sul nichilismo e sulla tecnica, ma con minor quoziente di supercazzole semantiche, sulla proto-globalizzazione, sulle masse trionfanti che facevano irruzione sul palcoscenico della storia, generando epocali disastri. Una destra anticipatrice, innovativa, cangiante, anche funerea perché no, che aveva in mille rivoli e in mille differenze animato il dibattito.

 

Vien quasi da immaginarselo il vecchio, luciferino Cèline alle prese con questa pencolante sindrome di Stoccolma subculturale, sputacchiante e macilento, con quel suo “la vita è questo, una scheggia di luce che finisce nella notte” vergato a chiare lettere nel ventre di ‘Viaggio al termine della notte’. Ma ci figuriamo un Mishima, su cui si annunciano oleografiche mostrine assieme ad altri happening a base di Pasolini e appunto di Gramsci, sprecare le proprie energie mentali, in una vita che è una sola e pure breve in genere, nella ricerca di una nuova centratura andando appresso a quel grimaldello per buffet da terrazza con vista Fori Imperiali rappresentato dal modo in cui si legge e si cita Gramsci? Nella sua opera più crepuscolare e dannata, ‘Per i sentieri dove cresce l’erba’, Knut Hamsun scrive “proprio ora dal sottosuolo sta sorgendo in un turbine una generazione nuova e piena di speranze. È così giovane e innocente, posso leggere qualcosa su di essa, ma non conosco alcun nome, e fa lo stesso. Sono tutti come lampade di viandanti: compaiono, brillano un po’ e svaniscono”. Non era esattamente la generazione che si getta sui ciottoli di Canossa, nominando tecnici arcobaleno, con alle spalle il poster di Gramsci illuminato dai neon e pronta a farsi sonoramente fustigare, immemore della grande lezione del buon von Masoch secondo cui ‘chi si lascia frustare merita di essere frustato’.

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