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O' sole Rumiz

L'ossessione musicarella della sinistra libraria per la cultura delle destre che sfascia l'Europa

Maurizio Crippa

L’ideologia solare (ma anche il padiglione oscuro) come metafora della destra culturale. Alla Buchmesse di Francoforte, racconta lo scrittore Paolo Rumiz, "il Sole, divinità maschile dei popoli guerrieri, succede nel Mediterraneo al matriarcato”

Non si vorrebbe dare l’impressione di attribuire troppa importanza alla Buchmesse di Francoforte, che è una importantissima fiera di settore, dove contano gli operatori, non gli oratori, né gli ospiti né tantomeno il pubblico. Non è un circolo per i lettori. Ma poiché sui giornali della sinistra italiana è diventata oggetto di una contesa persino identitaria, manco si fosse trasformata, per colpa del governo dell’Italia, paese ospite d’onore, nell’occasione di rinnovati Bücherverbrennungen, bisogna cercare di capire da dove nasca, e di cosa si sostanzi, una tale ossessione. Tale da far scrivere un “bilancio amaro” su Repubblica allo scrittore Paolo Rumiz. Anzi più che amaro, sembra l’incubo di un racconto di Perutz. Non fosse per l’involontaria comicità dell’ossessione “solare”.

Racconta Rumiz che mentre nel padiglione a colonne ideato da Stefano Boeri stava parlando di “comune radice mitteleuropea” con Mauro Covacich, qualcun altro a pochi metri cantava ’O sole mio. Un terribile disturbo, mentre si parla di Mitteleuropa. Ma fosse quello. E’ che regnava “una rappresentazione tendenzialmente da cartolina… la preoccupazione di riempire gli intervalli tra gli incontri con mandolinate o musiche vagamente sedative”. Fosse solo la cartolina sedativa: “Se alla canzone affianco il discorso inaugurale del nostro ministro della Cultura, Alessandro Giuli, imperniato su un’appassionata esaltazione della ‘cultura del sole’ e di un Mediterraneo dove si stemperano nella luce tutte le ideologie, allora mi metto in stato d’allerta”. Perbacco: “Dietro al desiderio di buttarla in musica c’era qualcosa di più antico. La cultura del sole, appunto. Che è una cultura di destra, innegabilmente”. E allora via con Wagner preferito a Sofocle, con Tolkien “dove il Sole, divinità maschile dei popoli guerrieri, succede nel Mediterraneo al matriarcato”. 

Insomma ’O Sole mio sarebbe il messaggio subliminale della “riemersione inequivocabile di un pedigree politico”. Dietro cui, ahinoi, più che la sagoma solare di Giuli ci sarebbe “l’ombra di Berlusconi”, “un’identità in infradito, costruita da abili influencer… L’invito a pensare di meno, a lasciarsi andare all’intrattenimento”. Tutto perché hanno lasciato a casa il vate napoletano della paranza dei bambini e un ministro ha parlato di cultura solare, anziché di Austria Felix o della forza dei popoli che premono dal Sud globale?

Non bastasse, a terrorizzare Rumiz è che tutt’intorno alla Fiera lo scrittore ha avvertito “la pressione allarmante di un’altra Germania, antidemocratica, con la quale era perfettamente inutile tentare un dialogo”. Il nazismo che torna ma anche “i voli nel caos, i trasporti di terra segnati da ritardi apocalittici e una disorganizzazione diffusa”. Il crollo di un paese modello, “un vortice di ansia e, a seconda dei casi, di aggressività” in cui “la Fiera si chiudeva a riccio, sembrava mettere il sigillo culturale al tramonto dell’Europa”. La Germania ha i suoi problemi, l’Europa pure. Ma il crollo da Weimar 2.0, per colpa di ’O sole mio, suonata dal pifferaio di Hamelin del nuovo fascismo, è caricaturale ed eccessivo. Ieri, sulla Stampa, anche Vincenzo Latronico si è lanciato in una metafora: il padiglione dell’Italia come “il luogo più buio di tutta la Fiera”. Nell’intenzione di Boeri era l’evocazione di una piazza-agorà. Invece “dava l’impressione di una chiusura opprimente”, le grandi vetrate erano “completamente oscurate… Dall’interno, del mondo di fuori non si vedeva nulla”. Il grande designer Latronico forse non sa che, fuori dal padiglione, oscurati, c’erano non “la realtà” ma altri padiglioni, forse persino i bar. Quando si trasforma la Buchmesse in una ossessione di metafore, si finisce per inciampare.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"