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La gogna rossa nel comune di Livorno

Simone Lenzi

Doversi dimettere per aver scritto che una donna con il pene non è una donna. La versione di Simone Lenzi

Simone Lenzi, scrittore, cantautore e frontman del gruppo Virgniniana Miller, è diventato assessore alla Cultura nella giunta di centrosinistra del comune di Livorno nel 2019. Il 10 ottobre il sindaco Luca Salvetti ha chiesto le sue dimissioni in seguito a un tweet attaccato per le sue critiche alla comunità Lgbt e altri in polemica con le vignette del Fatto Quotidiano accusate di antisemitismo. Con questo pezzo inizia la collaborazione con il Foglio.

Ho ritrovato in un cassetto la spilletta che mi appuntavo alla camicia da ragazzo: “The Age of Consent”. L’età del consenso. Era quella dei diritti gay, cantati dai Bronski Beat. Perché ero un giovinetto libertario e sperimentale, tutto sommato l’analogo di quelli che adesso vanno in giro coi capelli blu. Poi, certo, sono invecchiato, e coi capelli blu a cinquantasei anni non mi ci vedo, ma continuo a voler bene a chi sperimenta, a chi gode pienamente di tutto, nella piena libertà del corpo e dello spirito. La libertà, appunto. Guardo quella spilletta e penso che sono passati davvero troppi anni. E nel frattempo sono successe troppe cose. Intanto, nel frattempo, il progressismo è morto e sepolto, motivo per cui, se oggi sei un progressista e ti aggiri in un palazzo comunale amministrato dal centrosinistra, allora è probabile che tu sia uno zombie. Perché l’idea stessa che esistano princìpi universalistici in nome dei quali portare avanti battaglie che servano a tutti è morta e sepolta. Sono, in altre parole, uno di quegli zombie che pensa ancora che sia più importante pesarti il portafoglio prima di frugarti nelle mutande, nel senso che se poi non trovi un lavoro o paghi troppe tasse, l’unica cosa davvero fluida che puoi esprimere, alla fine della giostra, è una minestrina col dado.

La lista di chi ha smontato questi princìpi universalistici fino a renderli inservibili sarebbe troppo lunga, e di certo, su queste colonne, uno come Guido Vitiello saprebbe stilarla molto meglio di me. Una giratina a Francoforte magari, un po’ di Derrida letto male. Foucault letto bene. Deleuze. Qualche altro francese verbosetto ma di moda. Di sicuro Judith Butler e la grande chiesa della nuova sinistra in cui pregano insieme la transessuale di cinquant’anni che si è sottoposta a un trattamento sperimentale perché ha avuto la (testuale) “last minute idea” di sapere cosa si prova ad allattare il nipotino al posto della figlia e i liberi pensatori di Hamas e Hezbollah. Tolti di mezzo i princìpi universalistici però, e poiché in natura il vuoto non esiste, si è così assistito al popolarsi del tipico inferno lastricato di buone intenzioni, nel quale, morto Dio, gli uomini sono diventati dèi gli uni per gli altri. E se tali sono, è dunque inevitabile che se dici una parola appena dissonante, se provi a prendere fiato dall’apnea di un linguaggio canagliesco che impone di mettersi il preservativo sulla lingua ogni volta che si apre bocca, una delle tante tribù il cui ultimo ghiribizzo è subito legge divina insorgerà a reclamare il tuo scalpo. E stai pur sicuro che lo avrà. Perché questa chiesa, come tutte le chiese giovani, è intollerante, formalista, bigotta e bacchettona. Questa chiesa, debole di contenuti, non vuole mai confronti. Chiede piuttosto eretici e reprobi da bruciare sul rogo dello sdegno collettivo.

Motivo per cui se uno, non dico particolarmente intelligente quale io non sono, ma dotato di un grano di sale, prova ad esempio a suggerire l’ipotesi che davanti a una statua di donna col cazzo sotto la quale appunto sta scritto “woman” qualche donna senza cazzo potrebbe persino risentirsi (ma pare che il risentimento delle donne senza cazzo non sia mai contato un granché), viene fatto dimettere in tronco. Se confessa la sensazione di noia mortale davanti a un pezzo d’arte didascalica di questo nuovo realismo intersezionale, così tanto pedagogico da trattarci non come liberi “ermenauti” nel grande mare del senso, ma come adepti di una nuova dogmatica positiva, ecco che allora scatta la gogna, la condanna senza processo, la defenestrazione. E succede tutto in fretta: quarantotto ore nelle quali non c’è neanche modo di spiegare. Perché davanti all’imperdonabile bestemmia di suggerire che sì, puoi menare il cazzo per l’aia quanto ti pare, ma a qualcuno potrebbe sembrare ancora valido il principio di identità (non di genere) per cui A=A, non bastano neanche le dimissioni. Ci vuole lo stigma. C’è insomma da indire immediatamente una conferenza stampa, tanto grave è la colpa e urgente la fregola di punirla. Così, il sindaco, primo cittadino che si pensa rappresenti anche quelli, non pochissimi immagino, che credono ancora ad A=A, ha emesso la sentenza: “Le parole usate sono gravi e sono difficilmente accettabili le giustificazioni”. Perché il reprobo non solo deve perdere il suo lavoro (Landini, dove sei? Aiuto!), ma possibilmente è meglio anche che non ne trovi un altro. Il capro espiatorio deve vergognarsi, sparire, sperare che ci si dimentichi di lui il più presto possibile. E va bene. Certo però che, a parte nascondersi in un cantuccio, il capro espiatorio dovrà pur farne qualcosa dei suoi giorni ormai vuoti. Ecco allora che la chiesa talebana della nuova sinistra tende insperata una mano pietosa.

Così, per esempio, la giovane Martina Cardamone, presidente dell’ArciGay di Livorno: “Per noi non è una vittoria il fatto che Lenzi si sia dimesso. La vera vittoria è se avesse messo in discussione il suo pensiero in maniera critica”. Insomma, una vittoria mutilata.

E mi sovviene quella scena meravigliosa di “Amarcord”. Il vecchio socialista costretto alla purga con l’olio di ricino, e il gerarca in carrozzella dolentissimo: “E’ questo che ci addolora. Questa ostinazione a non voler capire. Ma perché, perché?”. Già, perché non capisco? Non bastandole che io abbia firmato per cinque anni tutte le delibere che riguardavano la sua associazione, non bastandole le dimissioni, la presidente, che ha trent’anni meno di me, vuole insegnarmi il pensiero critico. Ma non bastava dirmi “ok, boomer”, e alzare le spalle? No. Perché davanti alla Madonna intersezionale della Biennale, solo si può dire “Sì sì, no no, il di più vien dal Maligno”. E sia.

Del resto, Irene Galletti, consigliera regionale toscana del Movimento 5 stelle, in un suo post, parla apertamente di “pentimento”. Il reietto, dopo aver chiesto scusa, si deve pentire. Nella Chiesa cattolica, un’istituzione piuttosto ben rodata nel trattamento del peccato, i gesuiti elaborarono il concetto di “attrizione imperfetta”: temere le conseguenze del peccato pur senza provarne repulsione. Ma l’attrizione non basta certo alla Galletti, lei vuole proprio che io mi penta. Con lo stigma cretino della “fobia” marchiato a fuoco, inabile ormai al lavoro intellettuale, il reprobo deve dunque sperare che venga almeno allestito un campo di lavoro arcobaleno, una risaia inclusiva. Un gulag ecosostenibile dove si lavora duro, certo, ma poi, la sera, si legge finalmente Vera Gheno alla fioca luce di un lume a bioetanolo.

Ma siccome ogni tragedia si ripete come farsa e, col tempo, gli scontri fra giganti diventano scaramucce fra gli omuncoli che siamo diventati, non può non tornarmi in mente che Vittorini venne allontanato dal Pci perché aveva pubblicato prima una lettera di Sartre e poi un romanzo di Hemingway, e a Togliatti questo scostamento birichino dalla linea del partito non era piaciuto affatto. Bei tempi però! Perché bisogna riconoscere al buon vecchio stalinismo analogico di averci messo ben più di quarantotto ore a far sì che il Pci di Togliatti facesse il culo a Vittorini. I due, del resto, si scambiarono anche lettere di civile confronto argomentando in punta di penna (verde per Togliatti) su un tema tanto spinoso.

Invece, al tempo dei social, e quindi del turbostalinismo, è bastato il post di una consigliera cinquestelle perché la faccenda balzasse all’ordine del giorno della direzione del Pd livornese, la sera stessa dello scandalo, e cominciassero a squillare impazziti i telefoni del sindaco e dei consiglieri. Ma cos’era mai successo? L’assessore aveva forse rubato? Era magari concusso? C’era forse un avviso di garanzia pendente sulla sua testa, come quando andava di moda lo stigma del ladro? Magari! Molto ma molto peggio: l’assessore aveva, fra le altre cose, messo in dubbio che una statua di donna col cazzo, ancorché rispettabilissima, non fosse l’immagine quintessenziale della donna, nonostante l’unico vero motivo per cui l’avevano esposta in quella pallosissima edizione della Biennale di Venezia fosse suggerire il contrario in forma di autoritratto. Ma perché mai, dunque, un assessore alla Cultura si era interessato alla Biennale di Venezia? Come si era permesso, visto il suo ruolo istituzionale? Per tornare a Togliatti e Vittorini, però, c’è questa immagine che ora mi gira in testa, che non riesco più a togliermi dalla mente, e che mi fa ridere e disperare allo stesso tempo: Stalin nudo con un perizoma di pelle, bretelle borchiate e baffoni alla Village People, che mi fustiga sulla pubblica piazza davanti alla folla plaudente. Non ho mai avuto interesse per il teatrino sadomaso, ma chissà, fossi stato ancora nella mia fase sperimentale avrei potuto provare. Nessuno però si azzardi a sorridere, come in effetti sto facendo io, da quando mi sono messo a scrivere queste righe. Perché sorridere in questa chiesa del nome della “rosa è una rosa non è una rosa” (parafrasando Gertrude Stein) non si deve e non si può. E’ proibito. Se ridi, il posto alla gogna è già pronto per te. Invece, se nonostante tutto resti serio, essendo la nuova sinistra un dispositivo di potere come gli altri (solo più conformista), saranno disposti a riservarti uno strapuntino. Posso dunque, per tragicomica esperienza personale, consigliare a chi prenderà il mio posto come assessore alla Cultura del comune di Livorno di attenersi strettamente a quelle parolette che non vogliono dire nulla ma che riempiono la bocca dei miglioratori del mondo: inclusione, sostenibilità, territorio, città pubblica, resilienza etc. Un qualunque dosaggio di questa melassa va bene, e garantisce stabilmente l’aderenza del culo dell’assessore alla poltrona. Se poi l’assessore, invece di farsi il mazzo, non facesse proprio nulla per la sua città, come alcuni suoi predecessori, tanto meglio: la cultura, che è dibattito, confronto e scontro, lotta delle idee, sangue e nervi, non interessa mai davvero al potere, che vuole solo amministrare senza rotture di coglioni e distribuire semmai qualche spicciolo di welfare agli artisti in cambio di voti. E’ più un lustrino, la cultura. Un tirabaci sopra il labbro, un vasetto di fiori sul davanzale. Un orpello carino ma inessenziale. Del resto siamo il paese che teneva aperte le librerie durante il lockdown, un po’ come facevano in America con i gun store, con la differenza però che lì almeno le pistole poi le usano per spararsi allegramente, qui invece nessuno apre più un libro neanche con la pistola puntata alla tempia.

Il dibattito, il confronto, lo scontro anche appassionato sui grandi temi culturali non interessa più a nessuno, e bisogna farsene una ragione. Accettarlo. Meglio piuttosto arruolarsi in una delle tribù riunite nella grande chiesa dei buoni e dei giusti, e mordersi sempre la lingua prima di dire una qualunque cosa che abbia il minimo sentore di buonsenso. Arruolarsi e sperare che di buonsenso non ne cada mai neanche una goccia sui fili scoperti di questo strano accrocco che candida alle europee uno come Tarquinio, per il quale l’aborto non è un diritto, e caccia uno come me che si era limitato ad annoiarsi davanti a una statua cazzuta. Già, perché sennò l’accrocchio va in cortocircuito e se provi a spiegarti cos’è che lo teneva insieme, quale fosse insomma il filo nascosto fra i tanti visibili, ti vengono in mente solo spiegazioni imbarazzanti.

Che poi, tutto sarebbe andato secondo i piani, se non fosse che nessuno dei miei epuratori ha tenuto nella debita considerazione proprio quello che avevo anticipato all’inizio di questo articolo. E cioè che, in quanto progressista che si ispira a princìpi universalistici morti e sepolti, ero già uno zombie ben prima di essere defenestrato. Motivo per cui, mi dispiace, ma il sindaco, la giunta di Livorno, tutti i circolini dei buoni e dei giusti, la direzione del Pd livornese, le liste civiche ma tanto incivili, la psicopolizia del “bullismo etico” (citando Luca Ricolfi), tutti e tutte insomma, hanno scelto il capro espiatorio sbagliato: agli zombie puoi anche sparare in testa, ma tanto quelli si rialzano sempre. Così, rialzandomi, ho scoperto che accanto a me di zombie ce ne erano tanti, usciti finalmente da questo camposanto largo, per tornare a respirare. Ed è in questa ritrovata aria di libertà, da questa terra ancora di mezzo e di nessuno, che mandiamo i nostri divertiti e affettuosi saluti. A tutti e tutte.

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