L'editoriale dell'elefantino
Delegittimare pratiche abusive sul corpo femminile si può, ma con un rigore che non diventi persecuzione
La guerra dei diritti dovrebbe essere culturale, anche se disincentivare aborto e gravidanza per altri è un processo lungo e difficile. Ma la via giudiziaria deve essere percorsa con discrezione
Reato universale è formula roboante e può certo non piacere. Ragione e cuore si sono in parte grande assuefatti, tale è la forza dei costumi diffusi nella cultura di massa, all’aborto come diritto e pianificazione familiare, alla codificazione del feto aspirato come rifiuto ospedaliero, al mito della libertà incondizionata della donna e dell’irresponsabilità maschile e sociale nel fenomeno di genocidio, parola spesso usata a vanvera ma non in questo caso, più vasto della storia mondiale. Vero che le donne hanno sempre abortito, ma la trasformazione di una tragedia in un diritto solare e libertario è solo della nostra epoca. Il passo ulteriore di oggi è la codificazione del corpo femminile come incubatrice commerciale per una coppia di maschi omosessuali che desiderano un figlio, la trasformazione del seme maschile in strumento genetico neutro, ingegneristico, per una gravidanza interna a una coppia femminile, il traffico di ovociti legato o no all’omogenitorialità. Il fermo di una coppia di maschi italiani affluenti e la loro persecuzione in giudizio per aver pattuito, a quanto si capisce con scambio di denaro (a tariffa irrisoria: 5.200 euro), l’inseminazione, la gestazione, il parto di una bambina da parte di una donna povera di Rosario, in Argentina, è una storia miserabile, degna di Zola, di sfruttamento del corpo e della capacità materna di una donna e di mercificazione della vita nascente.
Detto questo, la guerra dei diritti dovrebbe essere prima di tutto una guerra culturale. Gli strumenti giuridici e le iniziative giudiziarie sono in aspro conflitto, quale che sia la considerazione in cui si tengono princìpi etici non negoziabili, con equivoci sentimentali ed effettive pulsioni d’amore alla base del matrimonio omosessuale, della mistica della famiglia non naturale, della vocazione omogenitoriale e educativa legata alla conquista biologico-genetica dell’autonomia umana dalla procreazione tradizionale. Opporre il carcere all’aborto, e la qualifica papale di “sicario” a chi lo consente in strutture sanitarie autorizzate, così come la mera persecuzione in giudizio dell’omogenitorialità, è una scelta che ha la sua ratio etica e legale ma risulta intrinsecamente rigida, perdente a fronte di una mentalità in buona fede, abbastanza popolare se non massificata o in via di massificazione, che parla di libertà e amore e uguaglianza dei sentimenti di fronte alla legge.
L’autorità giudiziaria argentina, secondo le notizie recate dal giornale di riferimento di Buenos Aires, non ha alcuna legge specifica sulla gravidanza per altri (Gpa) cosiddetta o utero in affitto secondo la dizione meno eufemistica, men che meno un reato universale come quello promulgato di recente dal Parlamento italiano, e agisce per adesso in base al sospetto che una organizzazione abbia operato, nel caso legato al fermo degli italiani e della donna di Rosario, allo scopo di trafficare illegalmente con la disponibilità disperata di uteri da impiegare nel ciclo commerciale del desiderio di fecondazione. Come si vede, nella guerra dei diritti, l’intreccio tra cultura e giustizia è molto stretto, in apparenza inestricabile. Delegittimare culturalmente e socialmente pratiche abusive sul corpo femminile è un processo lungo e difficile, la disincentivazione della deriva nullista in corso richiede strumenti complessi e politiche pubbliche intelligenti, e la via giudiziaria, in alcuni casi irrinunciabile, deve essere percorsa con discrezione, cioè con discernimento, e un rigore che non abbia alcun aspetto persecutorio e illiberale.
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