L'editoriale del direttore
Il moralizzatore se la passa male. Dalla Liguria ai famosi castigamatti scatta la legge del contrappasso
I casi di Vito Bardi e Antonio Decaro palesano lo scarso interesse mostrato dagli elettori per le indagini. Intanto Piercamillo Davigo, Nicola Gratteri e Roberto Scarpinato stanno sperimentando sulla loro pelle la regola della nemesi
Siamo ottimisti, lo sappiamo, e a volte cerchiamo di vedere il bicchiere mezzo pieno anche quando questo è in realtà decisamente mezzo vuoto e a volte cerchiamo di trovare un ordine anche laddove il disordine domina. Siamo ottimisti, lo sappiamo, e per questo pensiamo che la storia che vi stiamo per raccontare sia la spia di una virtù improvvisa dell’Italia, di un saper fare i conti con i propri vizi, con i propri peccati, con i propri guai, con le proprie follie. Siamo ottimisti, lo sappiamo, ma anche a costo di voler dare un ordine al disordine non possiamo non notare che negli ultimi tempi c’è una figura triste e pericolosa che in Italia se la passa male.
Una figura che per anni ha contribuito a intossicare la vita pubblica del nostro paese, trasformando ogni indagato in un colpevole fino a prova contraria, alimentando il circo mediatico della gogna nel dibattito quotidiano, spacciando per diritto di cronaca il diritto allo sputtanamento e che ora, magicamente, meravigliosamente, straordinariamente, si trova in un qualche guaio. Quella figura, che non è una figura semplicemente retorica ma è una figura drammaticamente reale, coincide con il profilo del moralizzatore collettivo ed è una figura che da qualche tempo mostra un’appetibilità, una popolarità, una centralità nella vita del nostro paese lontana dalle sue aspettative e lontana da una tradizione italiana in cui il moralista ha letteralmente dettato l’agenda del paese per molti anni. Oggi il mondo è cambiato, il moralista è in difficoltà, i moralizzatori sono allo sbando, i veicoli della moralizzazione vengono spesso moralizzati, gli sputtanatori vengono periodicamente sputtanati e un primo segnale, spassoso, se vogliamo, lo abbiamo avuto qualche giorno fa in Liguria. Il segnale più evidente ha coinciso con una circostanza interessante e non del tutto prevedibile: lo scarso interesse mostrato dagli elettori per le indagini che oltre ad aver portato all’arresto dell’ex governatore Giovanni Toti hanno messo a soqquadro la Liguria.
Un disinteresse mostrato dalla sconfitta del centrosinistra, che pur avendo candidato un ex ministro della Giustizia per provare a capitalizzare l’effetto generato da un’inchiesta della magistratura, ma un disinteresse mostrato anche dal fatto che il partito più moralista d’Italia, ovvero il M5s, ha evidenziato tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni e il suo stato di agonia proprio nella regione da cui tutto era partito: la Liguria di Beppe Grillo, che alle elezioni, visto lo scazzo con Giuseppe Conte, non è neppure andato a votare. In Liguria a essere andati in sofferenza non sono solo le ali della coalizioni di centrosinistra ma sono stati soprattutto i moralisti. E lo stesso in fondo, negli ultimi mesi, è successo in altri contesti politici. Casi come quello di Bari, dove l’ex sindaco Decaro, nonostante un’inchiesta fumosa che ha sconvolto la sua ex amministrazione locale, ha fatto il pieno di voti alle europee. Casi come quello di Torino, dove alle europee il Partito democratico, dopo essere stato destabilizzato per un’indagine fumosa incentrata su infiltrazioni della ’ndrangheta in Piemonte, è risultato essere il primo partito a Torino, superando di dodici punti anche Fratelli d’Italia.
Casi come quello della Basilicata, il cui presidente della regione, Vito Bardi, è stato rieletto lo scorso anno, nonostante fosse coinvolto in un’indagine portata avanti dalla Direzione distrettuale antimafia. Il moralismo non va più forte in politica, e per fortuna, ma anche in altri ambiti i moralisti soffrono, si affumano, si afflosciano, si contorcono nelle loro contraddizioni e nelle loro nemesi. Ambiti come quelli giudiziari, per dire. Ci sono casi come quello dell’ex magistrato Piercamillo Davigo, condannato in secondo grado per rivelazione del segreto d’ufficio, che sta vivendo sulla sua pelle lo strazio di dover dimostrare di essere innocente fino a sentenza definitiva. Ci sono casi come quello del magistrato Fabio De Pasquale, condannato in primo grado per rifiuto di atti d’ufficio, che dopo aver indagato per una vita l’Eni, per provare a incastrare qualche vertice, si è ritrovato incastrato proprio per aver voluto incastrare l’Eni a tutti i costi, anche a costo di nascondere alcune prove. Ci sono casi come quello dell’ex magistrato Roberto Scarpinato, oggi senatore del M5s, che sta sperimentando sulla sua pelle cosa vuol dire essere intercettati, da parlamentari, senza che vi sia l’autorizzazione del Senato richiesta dalla Costituzione.
Ci sono casi come quello di Nicola Gratteri, procuratore capo di Napoli, che ha scoperto sulla sua pelle, dopo aver arrestato un hacker che aveva violato diversi sistemi informatici del ministero della Giustizia, cosa vuol dire avere alle calcagna qualcuno pronto a pescare in modo casuale nella vita degli altri. Tu chiamala se vuoi la regola del contrappasso, la regola della nemesi, la regola della vendetta. Ma non pensiamo di essere troppo ottimisti, troppo innamorati del bicchiere mezzo pieno, se di fronte a queste storie, e a molte altre che mancano, ci sentiamo di dire con orgoglio e con speranza che un’Italia in cui il moralismo da quattro soldi fa passi indietro è un’Italia che con evidenza qualche passo in avanti forse lo fa.
Equilibri istituzionali