Il caso
Meloni da Orbán con l'Ue spaesata da Trump. Il dilemma della premier fra donna ponte ed equilibrista
La presidente del Consiglio in Ungheria con tutti i leader dopo le telefonate con il presidente Usa e con Musk. Macron cerca la riscossa del vecchio Continente, Rutte incalza l'Italia sulla Nato. E il premier ungherese si scontra con Zelensky
I suoi, in Italia, le dicono, e se ne convincono per darsi forza, che sarà la “donna ponte” con Donald Trump, magari anche attraverso l’ “amico” Elon Musk. Da Budapest però Giorgia Meloni – “sono malata, ma non ho diritti sindacali quindi sto lavorando” – sembra un’equilibrista. Costretta a camminare sulla stretta fune della vecchia Europa, impaurita e alla ricerca di contromosse davanti al cambio di scenario. Emmanuel Macron: “Dobbiamo difendere gli interessi del continente”. Segue metafora: “Se decidiamo di restare erbivori i carnivori ci mangeranno. Diventare onnivori non sarebbe male”.
E la premier come si collocherà nella fattoria degli animali Ue? Alla Puskas arena, dove si svolge il quinto vertice della Comunità politica europea, Meloni si presenta dopo aver reso pubbliche due telefonate abbastanza centrali nel contesto del momento. La prima protocollare, ieri l’altro, con il nuovo presidente degli Stati uniti. La seconda ieri mattina con mister X, cioè Musk “convinta che il suo impegno e la sua visione potranno rappresentare un’importante risorsa per gli Stati Uniti e per l’Italia, in uno spirito di collaborazione volto ad affrontare le sfide future”.
Ragionamento che rimbalza anche a Roma con Guido Crosetto. Durante un’audizione parlamentare, il ministro della Difesa ammette che “è impossibile non parlare” con l’unico che al mondo che possiede il monopolio privato, con Starlink, sui satelliti a bassa quota. Elon e Donald due “amici”, almeno sicuramente il primo, che dentro FdI sperano di coinvolgere, non si ancora in che modo, per la festa di Atreju il prossimo mese. Pensieri a briglia sciolta che si accavallano nel giorno in cui l’Europa, con 40 leader presenti, si dà appuntamento a casa di Viktor Orbán, sodale di Trump e di Putin. Non a caso dice di aver brindato alle elezioni americane con “la vodka dal Kirghizistan”. Altro che champagne. C’è dunque un pezzo di Europa che appare impaurita e in attesa, e un’altra, più piccola ma in questo momento centrale almeno nell’autonarrazione, che sfrutta il momento. E’ quella del primo ministro ungherese che si spinge così tanto a difendere il controverso – e finora poca efficace – modello albanese per i migranti fino a dire che per fermare i clandestini “occorre ribellarsi ai giudici perché Roma è come Budapest: il governo decide, ma poi la Corte europea cassa”.
Durante il vertice ristretto sull’immigrazione Meloni è seduta proprio tra il padrone di casa e il premier albanese Edi Rama.
Nello stadio intitolato alla stella magiara che giocò anche nel Real Madrid, esplode il conflitto sul futuro dell’Ucraina. Un derby, se vogliamo, che vede anche in questo caso Meloni a centrocampo in attesa di capire con quale squadra giocare. C’è Orbán, in modalità portavoce informale di Trump quando annuncia che il problema commerciale con l’America arriverà, ma c’è anche il presidente Volodymyr Zelensky. Il primo dice sul prestito di 50 miliardi a Kyiv che “abbiamo alcuni dubbi su come è organizzato”. E che soprattutto è “una questione aperta”. Soprattutto, e qui si capisce che molto potrebbe cambiare, “dopo le elezioni americane, perché ora è anche una questione a lungo termine non solo questo pacchetto, ma quelli che verranno dopo”.
L’ucraino lo smentirà quasi in diretta: non è vero che la maggioranza dell’Europa è a favore di un tregua con la Russia. “No, non è così”.
Le dichiarazioni da Budapest – “dove siamo tutti riuniti nell’ovile della pecora nera”, come scherza Rama – restituiscono un senso di straniamento. O comunque di smarrimento. Mark Rutte, segretario generale della Nato, non vede l’ora di lavorare con Trump e sembra, con uno slancio di realismo, anticiparne anche le intenzioni quando annuncia che servirà “più del 2 per cento del Pil” per finanziare i piani di difesa regionali dell’Alleanza atlantica. Parole che non si sgambettano con quelle di Giancarlo Giorgetti. Il ministro dell’Economia definisce l’attuale parametro “già molto ambizioso”. Visto che stando alle risorse previste dalla manovra, “l’Italia arriverà all’1,57 per cento nel 2025, all’1,58 nel 2026 e all’1,61 nel 2027”. Budapest guarda all’America, l’Europa va in ordine sparso. Servirà la ricetta-antidoto di Mario Draghi, presente anche egli qui, e soprattutto sarà adottata? L’ex banchiere centrale ne parla con Orbán. Ursula von der Leyen si complimenta con Trump, ma intanto si trova ora a dirimere un problema che riguarda Roma. Il leader dei socialisti francesi Rafael Glucksmann a cinque giorni dalle audizioni del futuro commissario Ue Raffaele Fitto dice che “non deve essere vicepresidente della commissione e per quel che so il mio gruppo non ha cambiato posizione a riguardo”. Tutto si intreccia. Tutto forse non sarà più come prima. Meloni balla fra essere la donna ponte o l’equilibrista su una sottile fune.