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Dopo il voto americano

Quanto “conviene” davvero a Meloni la vittoria di Trump? Parla il politologo Luca Ricolfi

Marianna Rizzini

Dall'aumento sulle spese militari al disimpegno dalla guerra in Ucraina, le incognite legate al nuovo inquilino della Casa Bianca sono diverse per la premier

La premier Giorgia Meloni ha chiamato il presidente americano eletto Donald Trump, per congratularsi della vittoria, riconnettendosi al suo passato più sovranista, anche se in questi due anni si era accreditata, sul piano internazionale, come la presidente del Consiglio italiana che, su molti dossier, non nascondeva la sintonia con l’ex presidente Usa Joe Biden. Oggi la vittoria di Trump è davvero per Meloni la soluzione migliore? Lo chiediamo al sociologo e politologo Luca Ricolfi. “Non so se sia la soluzione migliore", dice Ricolfi: "Se Trump mette dazi sull’export italiano e regala il Donbass alla Russia, magari Meloni non fa salti di gioia. Se poi Trump ci costringe ad aumentare subito le spese militari, ci saranno ancora più vincoli sulle prossime leggi di bilancio. Anche se bisogna aggiungere che, su nessuno di questi punti, una vittoria di Kamala Harris avrebbe dato grandi garanzie e rassicurazioni, vista la volubilità della candidata democratica”. Meloni potrebbe avere anche un altro problema: la tenuta della linea atlantista e le possibili ripercussioni interne rispetto all’alleanza di governo con Lega e Forza Italia, alleati che la pensano in modo diverso rispetto alla posizione dell’Italia sul piano internazionale (non a caso Matteo Salvini ha rivendicato, in questi giorni, il fatto di essere stato “l’unico” a sostenere Trump). “Lega e Forza Italia sono semplici comparse sul teatro della politica internazionale”, dice Ricolfi, “e secondo me faranno molto rumore per nulla. I conflitti veri potrebbero nascere all’interno dell’Unione Europea, perché abbiamo una Commissione sbilanciata a sinistra e ciecamente votata alla causa ucraina, mentre il voto europeo ha premiato le forze più critiche sulla linea di appoggio incondizionato a Volodymyr Zelensky”. Il voto americano fa in qualche modo da spartiacque temporale e politico rispetto ai primi due anni di governo Meloni: quali sfide attendono la premier, in Italia e all’estero? “Ne vedo soprattutto tre: gestire il disimpegno dalla guerra in Ucraina; far decollare la missione Albania, verosimilmente grazie all’aiuto dei vertici europei; ottenere una tangibile riduzione delle liste di attesa nella sanità pubblica”. La vittoria di Trump può dare impulso a una linea ancora più conservatrice in tema di bioetica e diritti? “Certo, il voto è stato chiarissimo. Che Trump abbia vinto a dispetto dei timori di tante donne per le restrizioni sull’aborto indica una cosa soltanto: l’ostilità al politicamente corretto e alla cultura woke è così forte che sommerge tutto il resto. Che questo potesse accadere è una delle tesi che sostengo nel mio libro appena uscito  (“Il follemente corretto-l’inclusione che esclude e l’ascesa di una nuova élite”, ed Nave di Teseo, ndr) dove tra le altre cose ricordo quattro fatti”. Quali? “Primo, già due anni fa Hillary Clinton aveva avvertito che, a forza di woke e diritti LGBT+, i democratici si sarebbero andati a schiantare. Secondo: Tim Walz, scelto da Kamala Harris come vicepresidente, si era distinto – come governatore del Minnesota – per il suo sostegno alla causa trans e alle transizioni di genere precoci. Terzo, una parte del mondo femminista – anche a causa di questa scelta del candidato vicepresidente – si stava interrogando sulla possibilità di non votare democratico, e chiedeva a Harris una presa di distanza dalle terapie di ‘affermazione di genere’ per i minori, presa di distanza che non vi è stata. Quarto, da almeno un anno e mezzo nelle aziende americane era in corso una smobilitazione delle politiche DEI (diversity, equity, inclusion), un chiaro segnale che il vento stava cambiando. Ma voglio aggiungere una cosa importante. Secondo me, l’impulso maggiore a una linea conservatrice su bioetica e diritti verrà da sinistra, se Elly Schlein non è pazza: liberarsi del follemente corretto, infatti, è la condizione necessaria (ancorché non sufficiente) per vincere le prossime elezioni”. E perché allora la sinistra non lo ha fatto prima? “Perché”, dice Ricolfi, “il tema dei diritti, da quelli dei migranti a quelli delle minoranze sessuali, è lo strumento che consente alle persone di sinistra di sentirsi migliori”.
 

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.