Il colloquio
Stefano Bonaga: "Gli scontri a Bologna sono solo una recita del Novecento"
"Parlare di fascismo non fa vincere le elezioni e Schlein deve fare politica, non chiacchiere", ci dice il filosofo bolognese
“A Salvini tirano i sassi, a Meloni imbrattano il viso. Mortificano la politica e neppure s'accorgono di fare il loro gioco”. Così dice al Foglio Stefano Bonaga, il filosofo bolognese che ben conosce la politica della sua città (centri sociali inclusi), e che aggiunge: “Fanno il loro gioco senza neppure prevedere gli effetti”. Ossia? “Il fatto, per esempio, che forzare la polizia non porta voti. Che Bologna non è espugnabile se si parla di fasci e antifasci. Che è solo stupido, lo ripeto. Sciocco e infantile”. Sciocco, infantile e dunque inutilmente pericoloso. Al punto che le violenze di sabato scorso, a Bologna, in occasione della campagna elettorale per le regionali, non hanno tardato a sfiorare picchi di alta tensione. Con i collettivi antifascisti che, nel tentativo di raggiungere gli omologhi di CasaPound, sono entrati in collisione con le forze dell’ordine e hanno macchiato di rosso-sangue i volti di Giorgia Meloni e Anna Maria Bernini sui manifesti… “Qualcosa di raccapricciante”, commenta Bonaga.
Ed ecco allora che al filosofo comunista, già consigliere comunale indipendente a fine Ottanta con l’allora Pci nonché assessore Pds nella giunta Vitali, chiediamo oggi se non sente nell’aria un che stantio. Se non ha la percezione, forse, d’un dibattito pubblico dedito a rimestare gli stilemi novecenteschi. A rinfocolare rossi e neri ovvero “zecche”, come dice il segretario della Lega Matteo Salvini, e “camicie nere”, come sostiene invece il sindaco dem di Bologna Matteo Lepore. Tanto che il Novecento, anche detto “secolo breve”, pare non finire mai. Bonaga, è così? “Conosco i ragazzi dei collettivi antifascisti e trovo desolante che il progetto politico, la politica come ‘azione’, venga accantonata in favore dell’identitarismo antifascista. In favore di una retorica che è quasi l’altra faccia del vannaccismo. Che devo dire? È tutto un gioco delle parti”. Tutto una recita del secolo scorso? “Certo. Anche se lo ammetto…”. Cosa? “È comprensibile che nei centri sociali non sappiano andare oltre”. Perché è comprensibile? “Perché neppure i corpi intermedi, e cioè i partiti, hanno confidenza con la parola, con il logos, con un linguaggio alto. Penso a Salvini ma penso anche, per esempio, a Elly Schlein. Che certo è una brava ragazza, ma sa…”. Cosa? “Schlein porta avanti una politica che genera confusione. Appena diventata segretaria ha detto ‘faremo un’opposizione durissima’. Ma adesso: anche un bambino sa che l’opposizione al governo la fa il parlamento e che tu, segretaria del partito, devi fare politica e non chiacchiere infantili. Quando parli di salario minimo, per dire, e cioè di un’ingiustizia nel terzo settore, devi coinvolgere la società nei processi”. Ma i corpi intermedi sono morti, l’ha detto lei. E quel che resta , appunto, è la commedia di Paolo Virzì: le zecche rosse, dicevamo, e le camicie nere. “Commedia? A me questa vicenda deprime. Sono depresso al pensiero che i partiti non orientino. Che i leader parlino la lingua dei piccoli”.
Nel Settantasette, nella sua Bologna, gli scontri erano affiancati da slanci artistici: dagli Indiani metropolitani, da Andrea Pazienza, dalla musica degli Skiantos. Cos’è rimasto di quella stagione bolognese? “Niente, all’infuori della parodia”. Non vede una luce? “La vedo semmai in quelli che si occupano, silenziosamente, dei migranti. Quelli che fanno biopolitica – per dirla con Michel Foucault – ma in senso virtuoso”. Lei dice che i leader seguono la stessa grammatica di chi s’azzuffa in piazza. Che parlano insomma la lingua barbara di Internet. E allora ci dica come ovviare al problema. Che libro consiglierebbe alle due leader, Meloni e Schlein? “Un libro di filosofia?”. Perché no? “No. Troppo difficile. Non so rispondere”.