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L'editoriale dell'elefantino

La tenaglia che minaccia Giorgia Meloni

Giuliano Ferrara

Il pragmatismo è la chiave di volta della destra italiana al governo. Sacrificare tutto agli ordini di un Bannon o alle mattane di Don Jr. e Musk, amichettismo a parte, non sarebbe una soluzione vincente

Trump e Meloni, situazione complicata. Questi sono un po’ degli zozzoni, d’altra parte lo rivendicano e ci vincono le elezioni. Il figliolo Don Jr. dice che la “paghetta di Zelensky” non verrà più pagata, brutale insulto di un buzzurro della provincia americana che vive di paghetta dalla nascita a un tizio che le elezioni le ha vinte anche lui, ha subìto da eroe popolare una guerra scatenata da un bullo globale cinque volte e fischia più potente di lui, ha resistito e resiste con l’appoggio dell’occidente e anche per conto dell’occidente a un’alleanza autocratica e revanscista Russia-Cina-Corea del nord-Iran, e la paghetta offerta da Biden al momento decisivo l’ha rifiutata dicendogli che non aveva bisogno di un passaggio sicuro per l’America ma di armi per combattere.

 

Meloni ne sa qualcosa perché si schierò subito contro l’aggressione russa e poi, vinte le elezioni anche lei, da capo del governo ha promosso nove volte pacchetti di aiuti militari alla resistenza, anche quando i repubbicani del Congresso Usa boicottavano Biden per dare una mano a Putin. Steve Bannon, un avanzo di galera in attesa della grazia presidenziale, intima a Meloni di tornare a essere quella che era quando piaceva al tre per cento degli italiani, di chiudersi nella guerra culturale del caos come in un bunker, e se l’Europa ci tiene a difendere una nazione indipendente ai suoi confini, se la paghi lei la difesa. Musk vuole cacciare i magistrati che emettono sentenze più che discutibili sui paesi sicuri, fa l’amico amerikano, ma un amico impiccione e pasticcione.

 

I populisti vittoriosi hanno a disposizione derrate di saltimbanchi eccitati e una star mondiale del rancore e dell’odio per le élite, disprezzano l’Europa del mercato unico e dell’esercizio intergovernativo e sovranazionale del potere, ma temono le une e l’altra al punto da scatenare con largo anticipo sull’inaugurazione presidenziale una massiccia provocazione: mettetevi in ginocchio di fronte a Putin e tu, Italia, staccati dalla tua natura e identità di paese europeista e sali rapidamente sul carro vincente della rivoluzione protezionista, isolazionista, spiccia e autoritaria che ha spopolato in America. Il trumpismo in un paese solo non è evidentemente possibile, e ne vedremo delle belle, ma questo di Don Jr. Bannon e Musk sembra il classico “vaste programme”, figlio dello spirito di millanteria e di jemenfoutisme che porta voti ma non fa una politica dignitosa e coerente con gli stessi interessi americani. Ci siamo passati qui in piccolo con Salvini e Di Maio e Giuseppi I, e non è stato un grande spettacolo.

 

Vogliamo vedere gli agricoltori e gli industriali e i finanzieri europei, nonché i lavoratori occupati e garantiti dal welfare in Lombardia e in Baviera, di fronte ai dazi e al blocco finale della globalizzazione dei mercati, alla pretesa di erigere un muro propagandistico e ideologico contro l’immigrazione nel Mediterraneo. E l’umiliazione dell’Ucraina, il premio a Putin, è l’umiliazione dell’Europa intera. Meloni sarà presa a tenaglia, perché l’Italia è il primo boccone appetibile nella logica di un potere che consideri l’Unione e la Nato come ostacoli a accordi strategici tra uomini forti, ma ha anche uno spazio importante che è quello del pragmatismo, della circospezione, dell’arte del possibile che è la politica internazionale, materia nella quale è sembrata particolarmente versata nei suoi primi due anni di governo. Il wokismo in Italia non ha mietuto grandi successi, e la coalizione di centrodestra lo ha finora tenuto a bada nelle sue pretese senza precipitare nella sindrome dello sfruttamento della paura sociale e della frustrazione di massa (quel compito se lo assume, con esiti spesso burleschi, il solo Salvini).

 

Il pragmatismo e una rappresentanza che va al di là della cintura ideologica di destra sono sembrati la chiave di volta della prima coalizione di alternanza guidata dalla destra italiana. Sacrificare tutto agli ordini sconclusionati di un Bannon o alle mattane di bambini ricchi e viziati come Don Jr. e Musk, amichettismo a parte, non sarebbe una soluzione vincente. In Germania a questo punto il popolare Merz, probabile futuro cancelliere, atlantista e europeista, amico dell’Ucraina e liberale pro business, diventerà un punto di riferimento. E anche Marine Le Pen, nella corsa per essere competitiva nel 2027, dovrebbe dare delle delusioni ai suoi fan italiani più sgangherati e magari qualche soddisfazione a Meloni.  

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.