La destra, la sinistra e l'alternativa che vorremmo. Un manifesto in dieci punti
In cerca di una terza via fra chi non riesce a fare i conti con il passato e chi crede di vivere in una perenne assemblea d’istituto
Dieci punti fermi per un’alternativa.
1. Il Novecento è finito, anche per chi non se ne è accorto. Si è esaurita così la forza dissuasiva di una memoria che bastava, di per sé, a tenerci al riparo da involuzioni autoritarie e da derive liberticide. Per contro, mentre una destra nuova e ancora non del tutto decifrabile governa in molte grandi democrazie occidentali per libera scelta degli elettori, il discorso politico di chi cerca un’alternativa appare stanco e vuoto. A tratti retorico e ipocrita. La verità può dunque non piacere, ma rende almeno liberi di provare a ripartire dai fondamentali.
2. Pensiamo che l’abbandono di princìpi universalistici, l’attenzione a ciò che riguarda potenzialmente tutti, sia il motivo principale di questa vocazione alla sconfitta. Soltanto al riparo di princìpi universalistici si deve e si può, per approssimazioni sempre imperfette, elaborare visioni che compongano interessi legittimi e particolari. Fuori da questo riparo, che impone dialogo, ascolto e compromessi, la politica è guerra per bande e tribalismo. E’ il tentativo di imporre la dittatura della minoranza che urla su una maggioranza che subisce in silenzio e si disaffeziona alla democrazia, autorizzandone l’involuzione autoritaria.
3. Un’alternativa possibile è quella di perseguire il principio universalistico di uguaglianza nelle differenze: il sogno di una società in cui cioè le caratteristiche individuali di ognuno siano irrilevanti rispetto alla possibilità di ciascun essere umano di attuare appieno le proprie potenzialità. Ma il richiamo all’universalismo di quel principio, che è l’anima dei diritti, è al contempo anche l’antidoto indispensabile perché il rispetto di ogni diversità non si traduca mai nell’imposizione di ciò che una comunità, nella sua stragrande maggioranza, non ritiene culturalmente e socialmente accettabile. E’ un lavoro immane quello di portare la maggioranza verso l’accettazione delle diversità, per questo nessuno vuole farlo davvero.
4. La politica che vuole costruire un’alternativa deve pensare i suoi fondamentali fuori dalle bolle social, nelle quali l’algoritmo rinforza la tendenza al tribalismo particolarista. L’illusione di essere specchio di un mondo che ci dà sempre ragione a suon di like, favorisce infatti la polarizzazione artificiosa delle posizioni. Fuori dalle bolle, esiste tuttavia il mondo reale nella sua complessa contraddittorietà e con tutte le sue sfumature. Nell’Italia reale, quella cioè che esorbita dal conteggio narcisistico dei like, vota soltanto il 49,66 per cento degli aventi diritto.
5. Un paese dove vota il 49,66 per cento degli aventi diritto è un paese in cui la maggioranza non si riconosce più in una politica che, eccitando gli animi delle tribù di riferimento e rifuggendo sempre da mediazioni socialmente e culturalmente accettabili, serve solo a rinsaldare fila sempre più strette al solo fine di garantirsi la sopravvivenza.
6. Un paese dove vota il 49,66 per cento degli aventi diritto è un paese dove la maggioranza, estromessa da una politica sempre più faziosa e radicalizzata, è sottomessa alla dittatura delle minoranze. Oggi tutti i partiti sono fortemente condizionati da ali estreme rumorose e aggressive, che dettano la linea. Un esempio paradigmatico: l’aver trasformato in un “reato universale” la Gpa, che era già reato, senza curarsi degli eventuali effetti sui bambini sta alla destra come l’aver prefigurato la galera per chi dissentisse dai contenuti del Ddl Zan sta alla sinistra. In entrambi i casi, è una minoranza a piegare il diritto penale in funzione di interessi minoritari, allo scopo di inventarsi capri espiatori da dare poi in pasto alla propria tribù di riferimento.
7. Di più: riteniamo l’eccessivo rilievo dato alla trattazione più divisiva possibile di temi divisivi, la scelta strategica consapevole e scellerata di una politica incapace di incidere effettivamente sul reale e, quindi, completamente concentrata su sé stessa. Allontanare i cittadini dalle urne agitando spauracchi massimalisti serve alla politica per continuare a sopravvivere senza mai agire incisivamente sui fondamentali: il sistema pensionistico, le tasse, il mercato del lavoro, la politica estera e in definitiva tutte quelle cose per cui ne va della vita di tutti, tutti i giorni. I diritti di cittadinanza devono stare dentro questo schema e non diventare battaglie di ripiego a coprire la mancanza di idee sui temi fondamentali. La differenza più importante e sostanziale, ovvero quella data dalle condizioni di partenza di ciascuno, resta il grande assente nel dibattito politico: di come si possa far ripartire l’ascensore sociale in un paese in cui è guasto da troppo tempo, è l’emergenza di cui non si parla più.
8. La destra che governa il paese è attraversata da mille contraddizioni e da divisioni interne laceranti. Resta tuttavia in piedi per una sorta di istinto animale di sopravvivenza che le risparmia ogni volta la capitolazione. La sinistra che non vuole governare mai più è invece quella che campa di carezze pelose agli indignati di turno, quella che ogni giorno converte i convertiti, limitandosi a cannibalizzare voti fra i diversi gruppi di un’alleanza che nemmeno riesce a partire. Per questo, ad esempio, c’è un Pd che con una mano manda in Europa uno che è contro l’invio di armi all’Ucraina e negherebbe alle donne il diritto all’aborto, con l’altra mette alla gogna un assessore per una legittima opinione su una statua alla Biennale di Venezia. E mentre coi piedi balla sul carro del Pride, tiene la bocca rigorosamente chiusa quando la destra licenzia un servitore dello Stato definendolo un “pederasta”. Un fulgido esempio di come ci si illuda che per vincere basti un po’ di marketing politico, quando in realtà manca proprio il prodotto.
9. Vogliamo dunque chiamare a un confronto le coscienze libere, tutti coloro che ancora credono possibile un’alternativa fatta di buon senso e buona volontà, di quella politica fondata nella realtà che sappiamo essere faticosa, perché se abbiamo imparato molto dalla democrazia americana, adesso rifiutiamo di seguirne la deriva. Non vogliamo vivere in un paese sull’orlo della guerra civile, diviso irrimediabilmente fra chi ritiene un diritto inalienabile andare in giro con un M16 e chi ti caccerebbe da scuola se sbagli il pronome che ha deciso di darsi tre giorni prima. Non vogliamo vivere in un paese, il nostro, in cui si è costretti a scegliere fra chi non ha saputo fare i conti con il passato e chi crede di vivere in una perenne assemblea di istituto.
10. Dall’America ci riprendiamo invece quel sacrosanto e personalissimo “diritto alla ricerca della felicità” che Filippo Mazzei ispirò a Thomas Jefferson e di cui speriamo di fare buon uso qui dove più serve. Lasciamo volentieri ogni felicità imposta dallo Stato a coloro che vorremmo fuori dal perimetro dell’alternativa, perché pensiamo che la politica migliore sia quella che conosce la soglia di rispetto davanti alla quale deve sapersi fermare. Lo sappiamo, siamo ambiziosi: vorremmo ricominciare a fare politica per costruire una idea di società in cui molti, tanti, possano riconoscersi. Perché sì, a noi interessa governare questo tempo nuovo.
Anna Paola Concia
Simone Lenzi
Ivan Scalfarotto
L'editoriale del direttore