L'editoriale del direttore
Il miglior giorno del Pd di Schlein e qualche lezione dalle regionali
In Emilia Romagna e in Umbria vincono Michele De Pascale e Stefania Proietti. Il voto non premia gli estremismi: elezione dopo elezione, l'elettorato populista dimostra di essere sempre più immaginario e sempre meno reale
Risultato parziale: due a zero. Risultato finale: undici a tre. Confronto tra le due leader: sette a tre. Inutile girarci attorno. Quella di ieri è stata una giornata importante per Elly Schlein, forse la più importante dall’inizio della sua esperienza alla guida del Pd. E le vittorie ottenute in Umbria, di un soffio, e in Emilia-Romagna, a valanga, sono lì a testimoniare uno stato di salute dell’opposizione, e soprattutto del Pd, migliore del previsto. Vince il formidabile Michele De Pascale, in Emilia-Romagna, riformista blairiano, si sarebbe detto un tempo, nuovo Starmer del Pd, e vince Stefania Proietti, in Umbria, magnifica cattolica pro life, meno magnifica pacifista alla Tarquinio, che vorrebbe sfilare dalle mani di Zelensky qualsiasi arma utile a difendere l’Ucraina e la cui vittoria spingerà forse qualche spericolato professionista della bandiera bianca a suggerire alla segretaria del Pd di ascoltare il messaggio arrivato dall’Umbria.
Le elezioni regionali valgono quello che valgono, lo sappiamo, e raramente storie molto locali possono offrire segnali utili per indicare un trend chiaramente nazionale (da quando il centrodestra è al governo, ha vinto undici elezioni regionali, da quando c’è Schlein alla guida del Pd il parziale è di sette vittorie per il centrodestra e tre per il centrosinistra, da quando Schlein ha avuto possibilità di scegliere candidati alle regionali non ereditati dal passato il bilancio è di quattro a tre per il centrodestra). Eppure qualche piccolo spunto di riflessione si può ricavare anche da questa tornata elettorale, che ridà fiato a Elly Schlein, che consente al Partito democratico di interrompere una lunga striscia di sconfitte, che permette al Pd di tornare a essere il primo partito degli Appennini, che riporta con i piedi per terra la maggioranza di governo e che permette all’opposizione di poter fare i conti con alcuni dati di realtà. Il primo dato è evidente. A differenza del voto in Liguria, sia in Emilia-Romagna sia in Umbria il centrosinistra si è presentato unito, passando dalla formula del campo largo a quella del campo tetris, trovando cioè combinazioni creative per far coesistere tutti i partiti della coalizione, dal M5s a Italia viva, che in entrambe le occasioni si è presentata senza simbolo, giocando la carta delle liste civiche.
Il secondo dato è altrettanto rilevante e dovrebbe essere una lezione anche per il futuro del centrosinistra: il M5s, viste le sue performance alle ultime regionali, 7 per cento in Sardegna, 7 per cento in Abruzzo, 7 per cento in Basilicata, 6 per cento in Piemonte, 4 per cento in Liguria, 3 per cento in Emilia-Romagna, 5 per cento in Umbria, è un movimento tascabile, ormai passato dal formato maxi a quello mini, e capitalizzare il risultato delle regionali significa anche rendersi conto che per allargare la coalizione non serve seguire ogni giorno l’agenda del M5s ma serve scrivere una nuova agenda, trasversale, più ambiziosa della declinazione pigra e quotidiana del vocabolario minimo dell’antifascismo. Il terzo dato rilevante, che è ormai una costante delle elezioni da diversi anni a questa parte, è il crollo progressivo alle urne dell’Italia che un tempo avremmo definito gialloverde e che ora possiamo semplicemente definire trumpiana. E dietro le sconfitte rotonde del centrodestra sia in Emilia-Romagna sia in Umbria vi è un crollo simmetrico da parte dei follower del trumpismo.
Sia quelli in formato macro, come la Lega, che in Emilia-Romagna passa dal 31 per cento del 2020 al 4 per cento di oggi e che in Umbria passa dal 36 per cento del 2019 all’8 per cento di oggi. Sia di quelli in formato micro, ed è qualcosa in più di un semplice risultato simbolico il fatto che il partito di Maurizio Lupi, Noi moderati, abbia ottenuto più o meno lo stesso numero di voti del partito di Noi estremisti, ovvero Alternativa popolare, guidato dal sindaco Stefano Bandecchi, castigato anche nella città di cui è sindaco: Terni. Sono piccoli segnali, piccole spie di un paese che cambia, piccole storie che permettono all’Italia di essere ancora una volta un caso più o meno unico in Europa. Un’opposizione all’interno della quale cresce solo il partito più moderato della coalizione (in Emilia-Romagna il Pd è al 42 per cento, in Umbria è al 30 per cento). E una maggioranza all’interno della quale crescono solo i partiti più moderati della coalizione (Fratelli d’Italia è passato in Umbria dal 10 per cento del 2019 al 20 per cento di oggi e in Emilia-Romagna dall’8 per cento del 2020 al 24 per cento di oggi; Forza Italia è passata dal 2 per cento in Emilia-Romagna del 2020 al quasi 6 per cento di oggi ed è passata dal 5 per cento in Umbria del 2019 al 9 per cento di oggi).
Le regionali ci ricordano che quando vi sono leggi elettorali che premiano le coalizioni chi non allarga il più possibile la coalizione sceglie di perdere in partenza. Ma ci ricordano anche che l’elettorato populista, estremista e nazionalista è un elettorato che vive molto sulle copertine dei libri impegnati, sulle prime pagine dei giornali indignati e in qualche bolla impazzita sui social. Ma al fondo è un elettore che elezione dopo elezione dimostra di essere sempre più immaginario e sempre meno reale. Molto bipolarismo e poco trumpismo. Oltre il sette a tre, o l’undici a tre se volete, c’è molto di più. E a saperle leggere ci sono buone notizie non solo per l’opposizione ma anche per l’Italia.