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A tu per tu

È l'ora di spegnere la Fiamma. Intervista a Luca Ciriani, il ministro che fu missino

Salvatore Merlo

“Quel simbolo appartiene a una storia passata, l’abbiamo già superato nei fatti. Prima o poi andrà tolto. Meloni sta dentro un percorso di modernità. L’accusa di fascismo? Una barzelletta”. Parla il ministro per i Rapporti con il Parlamento

Dice: “Se vogliamo andare avanti, e noi certamente vogliamo guardare avanti cioè al futuro, allora arriverà anche il momento di spegnere la Fiamma”. Poi specifica: “Arriverà il momento in cui la toglieremo dal simbolo. Magari non sarà presto ma arriverà. Ma per scelta nostra, e non certo perché qualcuno ce lo impone”. Infine rafforza: “Già adesso si può ben dire che la Fiamma appartiene a una storia passata, quella della mia giovinezza, che certamente non rinnego. Oggi tanti giovani di venti o trent’anni non ne conoscono il significato”. E Luca Ciriani, ministro per i Rapporti con il Parlamento, una vita nel Msi e in An, si esprime con quella flemma e quella misura che sono la cifra di questo friulano di cinquantasette anni dai tratti signorili spesso assai distanti dal modello del parlamentare o del sottosegretario per così dire “ruspante” (o squinternato) di Fratelli d’Italia. Mai sopra le righe, Ciriani non è la Peppa Pig di Mollicone e non è il Pozzolo del cenone di Capodanno, insomma non spara e non le spara grosse, ma nemmeno le manda a dire se è necessario. “Ci sono cose che non emergono nel racconto giornalistico. Ma vivo momenti di grande tensione, in diversi casi, sia con alcuni ministri sia con alcuni gruppi o singoli parlamentari”.

E’ il lavoro del ministro dei Rapporti con il Parlamento, d’altro canto. Si tratta di inseguire i provvedimenti. Dettare i tempi. Spingere i decreti in Aula. Strapparli dalle mani di ministri e sottosegretari. Respingere le richieste degli stessi parlamentari della tua maggioranza. Farli arrabbiare. Tutti.  “Diciamo che in questi due anni non ci siamo annoiati”. Ci racconti qualcosa, ministro: ci sono suoi colleghi che pasticciavano con provvedimenti, e parlamentari della maggioranza che facevano richieste assurde specie sulla manovra. Lo sappiamo. “Si dice il peccato ma non il peccatore”. Ma faccia un’eccezione, solo per noi. “Diciamo che ad esempio, il senatore Claudio Lotito è un tipo tosto. Giusto per non fare nomi e cognomi”. Ecco.  Una volta, al ristorante del Senato, all’ora di pranzo, Lotito si è avvicinato a Ciriani  gridando: Ahó, me devi sta’ a senti’: mi serve questo emendamento, mi serve, lo chiedo a titolo personale, ma anche politico. “Diciamo che è un osso duro, però a me è anche molto simpatico”


E dunque Claudio Lotito, si capisce, è un grandissimo rompiscatole. Ma è anche un simpatico rompiscatole. “Perché è una persona schietta”, dice Luca Ciriani. “Uno che non fa mistero di quello che vuole. Non finge di essere un’altra persona, va direttamente a quello che crede sia giusto per lui e per il suo partito”. Specie per lui, dicono. “Lavora per il mondo che rappresenta, politico e associativo. E’ la democrazia. Ci siamo confrontati in maniera anche dura, forte, persino animata”.  E i ministri? Alcuni non sono ferratissimi, dica la verità. “Guardi, in generale il problema è che ci sono molti tecnici, lo dico in maniera benevola ovviamente. Voglio dire che ci sono molte persone che hanno responsabilità anche altissime in politica ma che stanno ancora imparando come funziona il Parlamento. Non sanno che il Parlamento ha delle regole. Vede, in Parlamento ci sono i partiti, i gruppi, le commissioni, i presidenti di commissione... Insomma c’è un lavoro complicato da fare. Mi viene da usare una metafora antiquata, ma forse chiara: alcuni ministri pensano che il Parlamento sia come un jukebox. Ovvero che funzioni così:  tu metti una monetina ed esce la musica. Non è affatto così. Voglio dire che talvolta c’è una certa inconsapevolezza rispetto ai meccanismi della tecnicalità parlamentare. Quindi, per farla breve, il compito del ministro dei Rapporti con il Parlamento è quello di fare in modo che la monetina poi produca effettivamente il suono che la politica vuole che la macchina produca. E non è semplice”. Casi precisi? “Non gliene racconto nemmeno uno, ovviamente. Le posso soltanto dire che il Parlamento spaventa i neofiti. Anche i ministri. E’ normale. Perché si tratta di passare da un dibattito accademico o giornalistico a un dibattito faccia a faccia, vis-à-vis. Con parlamentari di opposizione agguerriti, polemici, fisicamente lì davanti a te con le loro urla, parole, facce, cori... Per alcuni non è semplicissimo superare questa fase”.

Dall’opposizione non bisogna farsi spaventare, ma nemmeno va trattata con arroganza. “Anche quello è un errore. L’arroganza. Io vengo da una storia soprattutto d’opposizione. Ho fatto opposizione per tutta la vita e penso che sia compito di una maggioranza di governo degna di questo nome tenere in conto le ragioni politiche e anche psicologiche, culturali e personali di chi sta all’opposizione. E alla fine è necessario che tra maggioranza e opposizione ci sia un’intesa sulle regole e sulla sostanza condivisa della democrazia. Anche perché è mia ferma convinzione che se l’opposizione è messa nelle condizioni di funzionare bene, questo fa bene anche alla maggioranza. Che non si impigrisce ma viene anzi sollecitata”.


Ciriani raccontava prima di provenire da una storia d’opposizione. In realtà quella del ministro è molto di più d’una storia d’opposizione, perché è la storia di una militanza nella cosiddetta comunità dei vinti: i postfascisti, gli esclusi, quelli della “voce delle fogne”. Adesso i vinti sono i vincitori: avrebbe mai immaginato, Ciriani, che un giorno del 2024 l’ex Msi avrebbe vinto le elezioni e sarebbe stato il primo partito in Italia? “Non me lo sarei immaginato nemmeno nel mio sogno più fantasioso. Ma anche perché, le devo dire, noi che entravamo nel Msi non coltivavamo grandi ambizioni. Non so come dire. Le assicuro che quello di poter fare carriera era l’ultimo dei pensieri di uno che militava a destra. Militando a destra al massimo ti prendevi qualche ceffone”. La destra era sputazzata, per così dire. “Altroché, letteralmente sputazzata. Se non peggio”. Poi le cose lentamente sono cambiate. “Finita la fase della violenza politica che aveva appestato l’Italia intera, nel Msi, ma soprattutto con An, emerse una classe dirigente che seppe interpretare la modernità. Uomini come Pinuccio Tatarella capirono che la politica si fa andando avanti e non guardando all’indietro. Quello del Msi era un mondo che difendeva e conservava se stesso, che viveva delle sue memorie, delle sue nostalgie, del suo reducismo. Mentre Alleanza nazionale, grazie anche a Tatarella, guardava avanti. Ed è quella la visione che io ho sposato, che condivido ancora oggi.  L’idea che si deve fare una politica nuova a destra, e che si deve vincere la sfida di diventare una forza di governo. Stare all’opposizione e fare testimonianza è più facile. Politicamente è più facile. Basta dire sempre di no. La grande sfida di Fiuggi, di Gianfranco Fini, di Tatarella e di tanti altri è stata quella di dire ‘adesso basta’ andiamo avanti e cerchiamo di pacificare l’Italia. Questo è un lungo cammino che Giorgia Meloni, che è una fuoriclasse, sta ampliando e continuando”.

Pacificare l’Italia che vuol dire? “Superare definitivamente quella dicotomia politica che ogni volta fa riemergere pulsioni e passioni da guerra civile. Tutte pericolose stupidaggini. Come se ci fosse qualcuno che non si riconosce nella nostra Costituzione, nel nostro sistema democratico. L’altro giorno ci sono stati degli scontri molto violenti a Torino. E si respira un’aria che un po’ mi preoccupa. L’opposizione deve fare l’opposizione sulla base della politica, non demonizzando l’avversario. Noi non siamo qui per ricostruire il fascismo. Questa è una barzelletta. Non ci crede nemmeno chi lo dice. Abbiamo vinto le elezioni democraticamente, e ci aspettiamo di confrontarci con l’opposizione in termini altrettanto democratici. Fra tre anni ci saranno nuove elezioni, vinceremo noi o vincerà la sinistra e non sarà un dramma in nessuno dei due casi”.  Lei dice che non bisogna guardare indietro e avere nostalgie, ma Fratelli d’Italia ha per simbolo la Fiamma del Msi anche se si definisce un partito conservatore.  “Noi abbiamo un progetto conservatore, già realizzato al Parlamento europeo, che in termini generici significa mettere insieme la tradizione della destra, quella mia, con la tradizione liberale e risorgimentale, con quella cattolica”.  E la Fiamma missina? “Ma guardi, fa parte della nostra storia e della nostra identità, anche se l’abbiamo già superata, è un fatto acquisito. Con assoluta tranquillità”. Ma sta lì. “E’ un elemento simbolico, e come tanti altri elementi simbolici avrà la sua parabola, ma non sarà mai rinnegata.  Senza drammi. E senza fanfare. Non è nemmeno un argomento di urgente dibattito. Accadrà e basta, anche perché solo quelli della mia età possono essere affezionati a quel simbolo superato. Ma per ragioni rispettabilissime e romantiche”. Montanelli, parlando del fascismo, diceva “fummo giovani soltanto allora”,  il fascismo era stato i suoi stupidi ma irripetibili vent’anni. “La Fiamma è stata la mia giovinezza, per quel simbolo ci saremmo buttati sul fuoco ma a un ragazzo di adesso non gliene importa nulla. E’ giusto così e lo posso capire”. 


Ma per fare un partito autenticamente conservatore servirà di più di un gesto simbolico: bisogna allargare, aprire la classe dirigente e anche la base del partito, non chiudersi tra amici o ex camerati. Non trova che Fratelli d’Italia dovrebbe assomigliare di più ai suoi elettori, che non sono il 3 per certo degli ex missini ma quasi il 30 per cento che prima votava soprattutto altri partiti? “Abbiamo preso oltre il 40 per cento nella mia provincia, a Pordenone. E nel nord-est, che una volta era super leghista, abbiamo preso il 30 per cento. Abbiamo una base elettorale molto ampia e che rappresenta mondi diversi. Il processo di adeguamento del partito è iniziato ma ha bisogno tempo. La formazione di una classe dirigente è un meccanismo lento. Detto questo, l’obiettivo è un partito conservatore, ma non un partito che assorba tutto il centrodestra. Il centrodestra è vincente e vivace perché è plurale. Penso che il centrodestra com’è configurato oggi rappresenti la maggioranza degli italiani e rappresenti la maggioranza degli italiani che crede nel lavoro e nell’impresa, insomma in quei fattori che reggono il paese in piedi. Per cui noi dobbiamo dare rappresentanza a questo mondo. La direzione l’abbiamo presa. C’è una leader fortissima che prima degli altri ha capito, va avanti, apre la strada al resto della truppa, che magari è un po’ più lenta, ma la seguirà. La strada è quella ed è tracciata”.

(Questa intervista è stata fatta in parte a Stresa nel corso del forum 2024 della Fondazione Iniziativa Europa)

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.