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Crepe a nord-est

Il modello nord-est è in crisi, ma la politica pensa alle poltrone

Dario Di Vico

In Veneto il dopo Zaia fa da sfondo alla crisi delle piccole imprese a cui nessun partito dà risposte. L’utilizzo di impianti dell’intera manifattura regionale è al 68 per cento, il punto più basso degli ultimi sette anni e anche sul mercato del lavoro si cominciano a registrare i primi timori

Sono passate poche ore e dopo i risultati delle regionali dell’Emilia-Romagna e dell’Umbria si è subito riaperto il big talk sul Veneto. Il governatore Luca Zaia scadrà a settembre del 2025 ma almeno una parte dei giochi si faranno ben prima. I risultati di domenica scorsa, con la nuova scoppola rimediata dalla Lega nelle amministrative, hanno immediatamente rilanciato la caccia alla presidenza da parte di Fratelli d’Italia, primo partito della coalizione in Veneto sia alle politiche sia alle ultime europee. Il coordinatore regionale, Luca Di Carlo, giudica che i veneti abbiano già detto come la pensano e potrebbe essere proprio lui l’uomo scelto da Giorgia Meloni dalla lontana Roma per succedere a Zaia. In caso contrario potrebbe toccare alla collega di partito Elena Donazzan ma per i melonisti da qui non si scappa.

 

Non è un mistero che guardino alla poltrona di governatore anche i responsabili di Forza Italia che sperano nel caso di inserirsi tra i due litiganti e, magari nell’ambito di una spartizione di più candidature nella Regione A4, avanzare il nome di Flavio Tosi. Il guaio, o comunque la complicazione, è che le mire politiche sulla poltrona più alta del Veneto stavolta coincidono con una congiuntura economica poco invidiabile. Produzione industriale, ordini dall’estero, vendite sul mercato italiano sono tutti dati in territorio ampiamente negativo. La cassa integrazione è alla stelle e anche in Veneto si cominciano ad accumulare sulle scrivanie degli assessorati competenti i dossier delle crisi aziendali. A tirar giù l’economia nordestina sono soprattutto la filiera dell’automotive e quella moda, la prima direttamente coinvolta nella crisi tedesca a cui forniscono un terzo della produzione e la seconda franata anche per lo sboom del lusso in Cina. Un dato riassuntivo: l’utilizzo di impianti dell’intera manifattura veneta è al 68 per cento, il punto più basso degli ultimi sette anni. E anche sul mercato del lavoro si cominciano a registrare i primi timori. Come andrà a finire è abbastanza chiaro, il fenomeno che tra qualche mese potremo consuntivare sarà la chiusura di un robusto stock di Pmi. L’80 per cento delle imprese della regione ha meno di 15 dipendenti, moltissime non fanno parte di alcuna filiera strutturata e quindi tra di loro ci sarà un’inevitabile morìa.

 

Ma a rendere più complesso l’esame della situazione, e in qualche modo a mettere in luce il singolare rapporto politica-economia, è che stavolta crisi congiunturale e declino del modello “strutturale” sembrano andare di conserva. Insomma non c’è solo una stagione della produzione e del mercato da lasciarsi alle spalle il prima possibile, ci sono invece tanti segnali che sia lo stesso modello nord-est a scricchiolare. Per carità ci sono in Veneto tante aziende che macinano utili ancora a due cifre ma nell’ambito di una polarizzazione dove la distanza tra i top performer e il gruppone si fa più larga. Così in diversi mettono in discussione i ritardi di una manifattura che si è innovata a passo d’elefante, che ha uno scarso collegamento con le università, poche startup, una crescente difficoltà a trattenere il capitale umano migliore e ad attrarne dell’altro.

 

Non è un caso che stia facendo discutere in questi giorni un pamphlet scritto per il Mulino da Giulio Buciuni, economista trevigiano che insegna al Trinity College di Dublino. Il titolo non rende (“Innovatori outsider”) perché nei fatti il testo è una requisitoria contro “i limiti del fare impresa in provincia”, arriva a mettere nel mirino i finora intoccabili distretti del nord Italia e conclude che “manca una nuova generazione di imprenditori che sappia valorizzare le competenze accumulate negli anni ma che le sappia necessariamente aggiornare e ricombinare”. In termini decisamente più soft alla necessità di individuare le discontinuità ha comunque aperto il presidente degli industriali veneti, Enrico Carraro, che parlando a Mestre a un evento Rcs ha ammesso che “il piccolo è bello non sta più funzionando”, che “purtroppo siamo un capitalismo di fornitori con pochi capi-filiera” e che “bisogna ragionare a livello europeo perché non si può fare politica industriale in un paese solo”.

 

Ce n’è abbastanza per fotografare quantomeno un momento di grande ripensamento tra gli stessi protagonisti dell’economia e come ciò stia prendendo corpo senza che parallelamente la politica si interroghi sui destini del territorio. Zaia, ad esempio, sfoggia ancora un continuismo ferreo: per lui non è vero che il Veneto sia poco attrattivo, la flessibilità del modello nord-est è ancora una virtù suprema e un sistema di 600 mila partite Iva e di piccolissime aziende può ancora giocarsela nella competizione globale. A suo dire, chi la pensa diversamente è afflitto da “fado portoghese” e forse porta anche un po’ iella. E gli aspiranti alla sua poltrona? Nessuno finora sembra voler fare i conti né con la crisi congiunturale della manifattura né tantomeno con i segnali di esaurimento del modello nord-est. Vogliono ereditare lo straordinario consenso di Zaia, compresa la venerazione che riscuote presso gli industriali, illudendosi che sia facile. E che davvero nulla mai cambi. La sola Donazzan, ex assessore regionale al Lavoro, frequenta le imprese mentre gli altri candidabili applicano logiche totalmente politiciste.

 

Di cosa pensino Tosi, De Carlo o i leghisti minori per ora non risulta pervenuto nulla. Tanto pensano: in Veneto è come in Emilia, chi ha sempre vinto continuerà a farlo anche se dovesse presentare ai nastri di partenza il candidato Topolino. La filiera dell’automotive potrà anche andare a gambe levate, le Pmi del territorio potranno chiudere a manetta ma loro aspettano che da un tavolo romano composto dai big del centrodestra venga fuori una spartizione delle cariche di prima fascia del nord e quindi il successore di Zaia. Un’attesa romana che nella regione il cui ceto politico ha fatto dell’autonomia la sua bandiera suona quantomeno stonata.