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passeggiate romane

Il Pd diviso sull'election day, Renzi e Calenda uniti contro Ruffini

Nel Pd si ragiona su vantaggi e problemi di andare al voto a marzo 2026 per regionali e amministrative: il ruolo di Emiliano e De Luca, la carta Manfredi e l'incognita M5s. Intanto i leader di Italia Viva e Azione bocciano il nome proposto come federatore del centro

Il governo sta pensando di indire l’election day per il prossimo turno di regionali e amministrative. Presumibilmente a marzo del 2026. Ma che cosa ne pensano le opposizioni? Carlo Calenda, che ha fatto questa proposta ancora prima dell’esecutivo e l’ha già ufficializzata, è ben contento. Il leader di Azione è convinto che sia impossibile riuscire a fare politica in Italia con le elezioni due volte all’anno, se non tre. Ritiene che una continua campagna elettorale impedisca alla politica di fare il proprio mestiere. E il Partito democratico? Tanto per cambiare, si divide. I presidenti di regione che dovrebbero lasciare nel 2025, come Michele Emiliano ed Enzo De Luca, tanto per fare due nomi, sono ben felici di vedersi allungare il mandato di un semestre. Perciò sono pronti ad accettare la proposta del governo quando la farà. Ma anche una parte del partito nazionale è convinta che alla fine per i dem sarebbe un bene perché le elezioni del 2026 potrebbero essere il trampolino di lancio del centrosinistra in vista delle prossime elezioni politiche. Ci sarebbe tutto il tempo di preparare le candidature adeguate, di evitare che Antonio Decaro debba lasciare troppo presto Bruxelles per candidarsi in Puglia (la sua candidatura ormai è un fatto certo, tanto più dopo che Emiliano ha fatto capire che non intende fare resistenza) e di depotenziare la bomba De Luca. Se poi i 5 stelle decidessero di andare per conto loro, Elly Schlein potrebbe sempre spendersi la carta Manfredi. E’ vero che l’attuale sindaco di Napoli, appena eletto segretario dell’Anci grazie a un’abile operazione del suo predecessore Antonio Decaro, fa resistenza di fronte a questa ipotesi, ma è anche vero che se venisse acclamato come salvatore della patria o, più modestamente, della Campania, gli sarebbe difficile dire di no. Tanto più che a quel punto anche una parte del Movimento 5 stelle si troverebbe in difficoltà a non appoggiare la sua candidatura, visto che a Napoli il M5s sostiene Manfredi. Un pezzo non indifferente del Pd, e fin qui maggioritario, preferirebbe però andare avanti così. Perdere all’election day – è il ragionamento che viene fatto – sarebbe un pessimo viatico per la coalizione di centrosinistra e per le elezioni politiche. 

Intanto nel Pd, ora tutto unito con la sua segretaria perché dopo le vittorie dell’Umbria e dell’Emilia Romagna nessuno vuole mettersi in cattiva luce contestando la segretaria, sta montando un’altra preoccupazione, quella che riguarda l’atteggiamento dei 5 stelle. Giuseppe Conte, che ha inneggiato alla vittoria della sindaca di Assisi Stefania Proietti (ma non a quella del dem Michele De Pascale, che pure ha appoggiato) non si è ancora ripreso dalla batosta elettorale del M5s e sembra sempre più convinto ad andare per conto proprio, tranne nei casi in cui il candidato sia del Movimento. Il timore dei dem riguarda quindi il fatto che l’ex presidente del Consiglio possa diventare ancora più insistente nei suoi veti, vanificando l’offensiva della simpatia che il Pd sta portando avanti nei territori con i 5 stelle. Ma Schlein continua a far mostra di non essere troppo preoccupata, la segretaria del Partito democratico è ancora convinta che alla fine sarà sempre più difficile per il M5s dire di no all’alleanza, tanto più che Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli stanno, per certi versi, ritornando all’ovile e non appaiono più ostili nei confronti del Pd come lo erano fino a una ventina di giorni fa. 

Ernesto Ruffini, direttore dell’Agenzia delle Entrate, come nuovo leader del centro che verrà? Lo scriveva ieri il Messaggero ed effettivamente l’ipotesi è in campo. E’ una suggestione nata tra gli ex dc legati a Sergio Mattarella, i quali sono convinti che occorra cominciare a muoversi perché altrimenti il centrosinistra orbo di un’area marcatamente moderata rischia di non attrarre nuovi elettori. Peccato, però, che sia Matteo Renzi sia Carlo Calenda, per una volta, la pensino allo stesso modo: è un’ipotesi costruita in laboratorio, che non sta in piedi.