Foto LaPresse

L'editoriale del direttore

Il trasformismo europeista di Meloni

Claudio Cerasa

E l’antifascismo? E l’agenda dei patrioti? E la deriva orbaniana? E la svolta autoritaria? Perché la nomina di Fitto è una buona notizia per l’Italia ma anche un fantastico cortocircuito per gli avversari e gli alleati della premier 

Tu chiamalo se vuoi trasformismo europeista. La nomina di Raffaele Fitto a vicepresidente della Commissione europea è una buona notizia per l’Italia ma è anche un fantastico cortocircuito per gli avversari di Giorgia Meloni e forse anche per i suoi alleati. E’ un cortocircuito per gli avversari di Giorgia Meloni perché, naturalmente, la presenza di un esponente di Fratelli d’Italia così poco impresentabile da essere persino votabile smentisce parte della retorica dell’opposizione relativa all’assenza assoluta nel mondo meloniano di una classe dirigente degna di questo nome. E’ un cortocircuito per questo, per gli avversari di Giorgia Meloni, ma lo è anche per altre ragioni. Per molte settimane, punto numero uno, l’opposizione ha accusato la presidente del Consiglio di aver giocato male le sue carte in Europa e di aver ottenuto da Ursula von der Leyen solo un contentino, con ruoli quello di vicepresidente e quello di commissario alla Coesione, sostanzialmente inutili, privi di significato politico.

 

Come è evidente, però, il fatto che i socialisti europei abbiano protestato a lungo per l’incarico dato a Fitto, minacciando di far saltare addirittura la Commissione, è lì a dimostrare qualcosa di diverso, ovvero che il ruolo di Fitto sia qualcosa in più di un riconoscimento solo simbolico all’Italia. A questo poi, punto numero due, si può aggiungere anche un altro elemento, volendo, che è quello che riguarda un elemento importante dell’agenda del Pd. Il partito guidato da Schlein, da mesi, accusa il governo di essere un sottoprodotto della cultura fascista. Ma il fatto di aver votato responsabilmente a favore di Fitto, insieme con i socialisti europei, non può che incrinare quella narrazione ed è evidente che accusare un governo di essere fascista, o qualcosa di simile, e votare poi al Parlamento europeo a favore del commissario indicato dal governo italiano alla presidente della Commissione costringe a porsi una domanda: o è senza senso quello che il Pd ha fatto a Bruxelles con Fitto o è senza senso quello che il Pd dice in Italia su chi ha proposto Fitto a Bruxelles.

 

Il cortocircuito, tra le opposizioni, è forte, ed è ovvio. Ma il cortocircuito è forte, ed è spassoso, anche per un alleato di Giorgia Meloni, Matteo Salvini, che per quanto possa essere soddisfatto di far parte di un governo che è riuscito a ottenere una casella importante nella Commissione non può non notare che il successo del governo, in questa partita, segna una sconfitta rotonda della sua linea politica. Alle europee, Salvini aveva detto che il governo di cui fa parte mai si sarebbe alleato con i socialisti e alla fine Meloni voterà la Commissione insieme con i socialisti. Alle europee, Salvini aveva detto che il governo di cui fa parte mai si sarebbe speso per un bis di Ursula von der Leyen e alla fine il capo del governo di cui Salvini è vice voterà la prossima settimana per Ursula von der Leyen come presidente della Commissione. Alle europee, Salvini aveva detto che avrebbe fatto di tutto per far avvicinare il suo governo al mondo dei così detti Patrioti, anche in politica estera, e invece alla fine il capo del governo di cui Salvini è vicepremier, in Europa, si è avvicinato ai socialisti allontanandosi dai Patrioti, anche in politica estera (la Commissione von der Leyen ha al centro della sua agenda la difesa dell'Ucraina, ma non ditelo ai trumpiani).

 

Da questo punto di vista, se ci si pensa, la parabola di Fitto è la fotografia perfetta di un aspetto del governo Meloni che spesso non si vuole vedere: il tentativo di essere in sintonia con il mainstream europeista sulle partite che contano (è Meloni che si avvicina al centro, non la Commissione che si avvicina all’estrema destra) trasformando l’Europa non in un nemico da combattere ma in un alleato da preservare anche a costo di far arrabbiare qualche partner del proprio governo. Tu chiamalo se vuoi trasformismo europeista: cin cin!

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.