Michele De Pascale (foto Ansa)

Le posizioni controcorrente

Vita nuova a sinistra. Il riformismo tendenza De Pascale

Alberto Mattioli

L'ex sindaco di Ravenna ha vinto le regionali in Emilia-Romagna e con lui ha vinto una sinistra moderata, concreta, postideologica. Non sequestrata dai giudici né dai grillini, non chiusa nella riserva  della Ztl né in quella mentale del pol. corr. Una chiacchierata sulle tracce di un nuovo modello politico

C’è vita perfino a sinistra. La notizia non è che Michele De Pascale, Pd, abbia vinto le regionali in Emilia-Romagna. Si sa: qui la stabilità politica è più solida che in Corea del Nord e dura in effetti anche dagli stessi anni. L’unica alternanza possibile non è fra sinistra e destra, ma fra sinistra emiliana (Stefano Bonaccini da Campogalliano, appena fuori Modena) e sinistra romagnola (appunto De Pascale da Cervia, spiagge e saline nella metà non fighetta di Milano Marittima, provincia di Ravenna). La notizia non è nemmeno che De Pascale non abbia vinto ma stravinto, 56 e rotti per cento in regione, con punte fino al 65 nelle città capoluogo, perfino quelle inusitatamente governate dalla destra come Forlì o Ferrara. No. La vera notizia, la notizia bomba, è quale sinistra abbia vinto. Moderata. Concreta. Postideologica. Non sequestrata né dai giudici né dai grillini, non chiusa nella riserva indiana della Ztl né in quella mentale del politicamente corretto, non succube di Landini o della coppia di fatto Fratoianni-Bonelli, dell’ambientalismo fanatico o del wokismo intollerante, salda nei principi ma pragmatica nella loro applicazione. Insomma, Michele De Pascale, 39 anni, cursus honorum già pienissimo ma vissuto e raccontato dando l’idea di non aver fatto nulla per allungarlo. Falso, peraltro, perché chi lo conosce bene spoilera che in realtà il neogovernatore è un ambizioso benché, come tutti quelli che lo sono veramente, neghi risolutamente di esserlo. Soltanto, si inalbera leggermente quando gli dai del democristiano (per quanto, appunto, si possa inalberare un democristiano): “Ma no, cosa dice? Io sono un riformista di sinistra”. Beh, era un complimento. Come fa a non piacere a noi estremisti della competenza uno che dice che ogni tanto si riguarda il video di Draghi che annuncia all’Europa e al mondo il suo “Whatever it takes” e “quasi mi commuovo, è stato un momento in cui mi sono sentito orgoglioso di essere italiano ed europeo”: la certificazione che De Pascale sta al populismo prêt-à-porter, destra e sinistra pari sono, come Trenitalia alla puntualità. 

   

Di ritrattoni dell’ex sindaco di Ravenna sono pieni i giornali, dopo l’exploit elettorale e il sospiro di sollievo che ha suscitato a sinistra. Per il Pci e derivati, “quel gran pezzo dell’Emilia” (copyright di Edmondo Berselli), e mettiamoci pure quella maggiorata della simpatia che è la Romagna, è come la mamma: non si discute, si ama, e perderla sarebbe la peggior sciagura immaginabile. E dunque il De Pascale appare chiamato in prospettiva anche a immancabili destini nazionali, benché poi lui si schermisca e ripeta un’intervista sì e l’altra pure che fin da quando iniziò la carriera politica, ai tempi del liceo, l’Augusto Righi di Cesena, purtroppo scientifico (pazienza, la perfezione non è di questo mondo), il suo sogno era salire come presidente al diciassettesimo piano del palazzo della Regione Emilia-Romagna, in un semicentro molto direzionale dove Bologna fa finta di essere Los Angeles.

   

Il seguito è stato folgorante: consigliere comunale a Cervia a 19 anni, “non avevo ancora fatto la maturità, non mi avevano bocciato, eh, ma perché sono nato in gennaio”, segretario provinciale del Pd, sindaco di Ravenna eletto nel 2016 al ballottaggio e rieletto nel ‘21 al primo turno con quasi il 60 per cento, presidente della Provincia e anche dell’Unione provincie italiane. E dire che il papà, fiero anticomunista in zona partiti laici, si arrabbiò quando il figlio si candidò per gli allora Ds e, ancora di più, quando perse per un voto: il suo. Naturalmente, poiché siamo in Romagna, non può mancare anche un nonno bagnino (d’estate; d’inverno, imbianchino, “uno che ha lavorato tutta la vita”), così che Pier Luigi Bersani, non poteva mancare nemmeno lui, chiama De Pascale “l’uomo che legava la sabbia”, chissà che vorrà dire.

 

Biografia perfetta per la narrazione, con due incredibili sliding doors che, se comparissero nello stesso film, sarebbero rimproverati allo sceneggiatore. Il primo: il terribile incidente d’auto del 2011, con De Pascale ventiseienne che viene salvato per il rotto della cuffia e rimane fra la vita e la morte per dieci giorni passati in coma farmacologico. Conseguenze, racconta adesso, “un rispetto quasi religioso per il Servizio sanitario pubblico della mia regione perché, se l’incidente non fosse capitato da queste parti, oggi sarei morto o paralizzato. E poi una certa capacità di ‘pesare’ bene le situazioni, perché quando hai rischiato davvero di morire diventa difficile arrabbiarsi o andare nel panico per delle cose che magari sono sì importanti, ma mai come la vita”. Secondo episodio: 2015, muore in un altro incidente il candidato sindaco del Pd a Ravenna, Enrico Liverani, e il partito sceglie lui per sostituirlo in corsa, “con il mio nome aggiunto in tutta fretta sui manifesti”. E allora, ammette, “fare il sindaco, certo, è stato bellissimo, una grande esperienza, ma non ho mai dimenticato, nemmeno per un giorno, che lo ero diventato perché era morto uno dei miei migliori amici”.

 

Senza contare che lui era cresciuto a Cervia, Ravenna non la conosceva nemmeno troppo bene, e la notte, dopo una giornata di campagna elettorale, la passava a studiarsi lo stradario della città che poi avrebbe amministrato. Però facendo il sindaco ha imparato il metodo giusto per governare: “Quando chiami le persone a discutere sui problemi e sul modo di risolverli, alla fine la sintesi si trova. Certo, è faticoso, perché è più difficile mettere d’accordo la gente che fare proclami. Ma alla fine funziona. Il mio più grande successo come sindaco è stato il progetto sul porto. Ne ho parlato con le categorie interessate, mi sono confrontato con la città, e alla fine eravamo tutti così d’accordo che in Consiglio comunale il mio piano è passato all’unanimità, ha votato a favore anche l’opposizione. A queste regionali i più votati del Pd, in ogni provincia, sono stati gli amministratori locali. C’è voglia di competenza, di gente che ha dimostrato di saper gestire la cosa pubblica. Però eviterei la retorica del sindaco come soluzione a tutti i guai della politica. Non è automaticamente un bollino di qualità. In fin dei conti, è sindaco anche Bandecchi. Dipende tutto da come l’hai fatto. Bucci a Genova ha perso; io a Ravenna ho preso il 58 per cento”. Per dire. Guardi però che è lei ad aver subito dichiarato che per lei il presidente è il sindaco della Regione... “Nel senso che il rapporto con i territori, uso il plurale perché in realtà l’Emilia-Romagna è un’astrazione, sono molte regioni diverse, è sempre più fondamentale. I territori vanno ‘letti’, prima di governarli. Fare politica non è sempre la stessa cosa che amministrare. Guardi Giorgia Meloni. Come capo partito, come si fa a non ammirarla? Ha preso un partitello da niente e ne ha fatto quello di maggioranza relativa, ha vinto le elezioni, eccetera. Come presidente del Consiglio, il mio giudizio è del tutto negativo, e credo che sia sospeso anche fra chi l’ha votata”.

   

Vabbè, però è difficile negare che un presidente di regione, e che regione, non il Molise, eletto così a valanga non assuma un ruolo nazionale. “Io mi ispiro a Luca Zaia”. Prego? “Sì, Zaia. Non condivido per nulla le sue posizioni politiche. Ma la sfido a trovare una sua dichiarazione che non riguardi il Veneto. In questi anni, è sempre stato focalizzato su quello che stava facendo, il presidente di una grande regione. Non giudico la sua politica. La sua postura, sì. E mi piace”. Che il nuovo presidente piddino dell’Emilia si ispiri a quello leghista del Veneto è una notizia… “Però le differenze restano. Io vengo da una cultura risorgimentale [parentesi personale dell’inviato: vero, a Ravenna ci sono ancora i repubblicani, sì, proprio il Pri, quello dell’edera, esiste, con sedi, manifesti, perfino eletti. Come non adorare la Romagna? ndr], lui da una autonomista, ha fatto mettere nello Statuto della regione che esiste un popolo veneto. Mi piacerebbe discutere con Zaia di autonomia, perché probabilmente ne abbiamo un’idea diversa. A me va benissimo l’autonomia amministrativa, molto meno quella legislativa, altrimenti l’Italia diventano venti staterelli, come prima del Risorgimento, appunto, o forse peggio. In pratica: la strada la cura l’ente più vicino al cittadino, ma il Codice della strada rimane uguale in tutta Italia”.

 

Vediamo quindi di capire le ragioni di questo plebiscito pro De Pascale. “Gliene bastano tre?”. Dica. “Primo: ho cercato di incarnare i due valori massimi di questa terra, che sono la laboriosità e la solidarietà. Non dicendo che sono i nostri valori, di noi della sinistra, ma quelli di tutti. Si riparte da lì, da questo minimo comun denominatore. Secondo: il giudizio mediamente positivo sull’amministrazione di Stefano Bonaccini. Non vuol dire che sia stata perfetta ma che, nel complesso, ha governato bene, il voto lo ha certificato. Terzo: io ho fatto tutta la campagna elettorale parlando dei problemi da risolvere, che per chi parte dal potere è insolito. Non ho mai nascosto la polvere sotto il tappeto. Se c’è qualcosa che si può migliorare, bisogna dirlo. E guardi che fra la mia avversaria [Elena Ugolini, mai nominata, ndr] e me su molti argomenti non c’era questa distanza siderale. Prenda il post alluvione. Dicevamo più o meno le stesse cose. Solo che ho detto subito: il commissario voglio farlo io. Lei invece voleva un tecnico, perché il governo ha dato l’incarico al generale Figliuolo e il governo non sbaglia mai. Diciamo che io ci ho messo la faccia”. E infatti le sullodate gole profonde ravennati raccontano di un episodio remoto ma significativo, una Festa dell’Unità dove qualcuno sbagliò e lasciò che ci si installassero delle slot machine, quindi gran polemica sul Pd amico dei biscazzieri e sponsor del gioco d’azzardo. “Fu un gran pasticcio, avevano comprato uno spazio raccontandoci una supercazzola e ci misero le macchinette senza dircelo. Comunque, sbagliammo. E io lo dissi: scusate, abbiamo fatto un errore, e bòna [traduzione per chi non ha avuto la fortuna di nascere sotto il Po e sopra gli Appennini: fine della discussione, voltiamo pagina, palla avanti e pedalare, ndr]. I cittadini pensano che i politici sbaglino quasi sempre, e non è vero. Ma quando succede è molto meglio ammetterlo e chiedere scusa. Metterci la faccia, appunto”. 

    

Rivendica la scelta del rigassificatore a Ravenna. E’ favorevole  alla ripresa delle trivellazioni. Si è schierato per l’abolizione del reato d’abuso d’ufficio, è ancora favorevole al Jobs Act. E sull’Ucraina, “la trattativa senza aiuti non regge, ma gli aiuti senza trattativa non hanno senso”. Futuro da leader del Pd?  “Io non sono per nulla l’anti Schlein, che è la mia segretaria”

    

Il risultato è un’impressionante mappa dell’Emilia-Romagna tutta rossa, comprese, come s’è visto, le città momentaneamente prestate alla destra, tranne la provincia di Piacenza che conferma di essere un po’ aliena perché è colorata di blu (e allora, per inciso, riciccia una vecchia idea dell’emiliano sciovinista che è in me: urge fare lo scambio con la Lombardia, consegnarle Piacenza e farsi dare in cambio Mantova, perché una città dove impazzavano i Gonzaga più sessualmente e gastronomicamente incontinenti, si cammina sotto i portici e la pasta ripiena si mangia in brodo – sorbir d’agnoli, do you know? – sta chiaramente dall’altra parte del Po per sbaglio. De Pascale invece Piacenza la terrebbe, ma si prenderebbe anche un pezzo della provincia di Pesaro perché già Tonino Guerra chiamava gli autoctoni “marchignoli”, marchigiani più romagnoli, qualche comune appenninico in bilico fra Romagna e Toscana e magari pure uno sbocco al mare dall’altra parte. In effetti il ducato di Modena, all’arrivo dei piemontesi, comprendeva anche Massa e Carrara, ma lì il porto non c’è, “quindi facciamoci dare La Spezia e chiudiamola lì”. Vabbè, fine del momento Risiko).

 

Presidente, allora la metta, la faccia, anche su una serie di faccende già in curriculum. Iniziando dal rigassificatore: da sindaco, lei l’ha voluto, non subito. “E lo rivendico. Pensavo, e lo penso ancora, che fosse giusto aumentare la capacità di rigassificazione del paese, per compensare le nostre carenze storiche, poco gas e poche rinnovabili. E Ravenna era la sede naturale per mettercene uno: detto fatto. Una sede perfetta era anche Piombino, dove in effetti il rigassificatore l’hanno costruito, ma il comune a guida FdI vuole toglierlo. Nel frattempo, ha rinunciato alle compensazioni governative. Io invece le ho prese, venti milioni di euro con i quali ho finanziato cento ettari di forestazione, l’illuminazione a led degli uffici comunali e la rigenerazione di tutto il litorale davanti all’impianto. Mi sembra sia stato un buon affare per la città. Intanto Bucci, che voleva spostare l’impianto di Piombino a Genova, adesso è contrario. Questo significa che l’idea che ci sia una sinistra sempre Nimby, Not In My Back Yard, e una destra del fare, sempre per il sì, semplicemente, è destituita di ogni fondamento”. Già che siamo in tema energia, lei è favorevole anche alla ripresa delle trivellazioni. “Mi sembra ovvio. Siamo l’unico paese al mondo ad aver costruito due rigassificatori sopra dei giacimenti di gas non sfruttati. Su questo ho fatto una battaglia in totale eresia, perché da destra a sinistra passando per il centro erano tutti no triv. Quando si decise di bloccare le trivellazioni, e purtroppo l’ha deciso Draghi che è stato molto meglio come banchiere che come presidente del Consiglio, del resto non è un politico, il suo ministro era Stefano Cingolani, io dissi che Putin stava stappando lo champagne. In effetti, non mi sembrava una scelta molto saggia bloccare la produzione di gas per comprarlo dalla Russia. In questo paese siamo passati da una produzione di venti miliardi di metri cubi a una di due, e che sta ulteriormente calando. Non pare un grande affare, se non per chi ci vende quello che manca”. E il nucleare? “Mi sembra un dibattito tutto ideologico. Io sulle tecnologie sono laico, credo che per discuterne seriamente servano delle competenze che non ho. Però in Italia non riusciamo nemmeno a decidere dove stoccare le scorie delle vecchie centrali, è un po’ surreale volerne costruire delle nuove. Quando Pichetto Fratin dice: intanto stabiliamo che si torna al nucleare, poi decideremo dove mettere le centrali, mi sembra faccia propaganda. Il problema politico è appunto dove costruire le centrali. Se sia conveniente farlo o non sia meglio aspettare la nuova generazione del nucleare è una questione tecnica”.

   

Andiamo avanti. Lei fece scandalo, soprattutto dalle sue parti politiche, perché si schierò per l’abolizione del reato d’abuso d’ufficio. “Perché, semplicemente, è un reato che non funziona. Non lo dico io, lo dicono le statistiche che raccontano di una stragrande maggioranza di assoluzioni. Ma intanto già il solo fatto di essere indagato è infamante, in un paese che si dice garantista ma non lo è: se lo indagano, qualcosa avrà fatto, è l’opinione dominante. Io penso che se qualcosa non funziona, vada riformata. Poi si vedrà se funziona anche la riforma. Perché, attenzione, essere garantista non significa non vedere i guasti che ci sono nella pubblica amministrazione, dove lavorano tante persone perbene e anche qualcuna permale. Ma è stato giusto cambiare”.

   

Idem la sua posizione eretica sul Jobs act: è ancora favorevole o ha cambiato idea? “Continuo a pensarla come allora e non mi pento di non aver firmato il referendum. Sul lavoro ci voleva, e ci vuole, una riforma organica. E le riforme giuste non si fanno a colpi di referendum”. Insomma, niente avversione preconcetta contro Renzi, che nel campo largo mette d’accordo tutti o quasi. “Qui in Emilia-Romagna ho dovuto lavorare di più per tenere dentro la mia coalizione il Movimento 5 stelle e Azione che Italia viva. Se la parte di centro del centrosinistra è in crisi, è un problema non solo per il centrosinistra o per la mia regione, ma per il paese. L’Italia avrebbe bisogno di una forza che stia nel campo liberaldemocratico, ma nel centrosinistra”. Ma non pensa che la dialettica politica sia sempre meno quella fra sinistra e destra e diventi sempre di più quella fra competenza e populismo? “In entrambi i campi ci sono sia l’una che l’altro. Qui bisogna mettersi d’accordo e distinguere fra il populismo, che prende in giro le persone facendo credere loro che esistano soluzioni elementari per problemi complessi, e una popolarità che invece le persone vuole farle partecipare alla politica. Non è che puoi interessarti alla cosa pubblica soltanto se hai due lauree. La politica è consentire a tutti di farsi un’idea. Per questo è così faticosa, per questo bisogna spiegare, discutere, confrontarsi. Io credo che fare politica voglia dire trovare una sintesi delle diverse posizioni, non cavalcare le differenze”. Sembra di capire che sia questa anche la sua ricetta anche per il post alluvione. Lei l’ha subito detto: il commissario voglio farlo io. Ma, par di capire, collaborando con Roma invece di litigarci. Crede che così i soldi arriveranno prima, o anche solo che prima o poi arriveranno? “Più che gli aiuti, al governo chiedo un patto repubblicano. Lasciamo da parte i soldi, togliamoli dal dibattito. Io voglio che Meloni mi dia un riferimento chiaro nel governo con il quale confrontarmi quando ce n’è bisogno. Per il resto, me ne occupo io, che conosco i miei territori. Anche perché, mi scusi, mi sembra dimostrato che so farlo. Nei diciotto comuni della mia provincia, e sono stati alluvionati tutti e diciotto, io ho vinto dappertutto, e sempre con più del 50 per cento dei voti. La narrazione intellettualmente disonesta della destra di un territorio male amministrato e abbandonato a sé stesso non ha pagato. Per questo dico a Meloni: collaboriamo”. D’accordo, e scusi la domanda populista: per lei è peggio Salvini o Meloni? “Non posso rispondere…”. Così è comodo. “No, non posso rispondere perché di Salvini in realtà ce ne sono due. Uno, quello pubblico che fa campagna elettorale a tempo pieno, che in effetti è più distante da me di Meloni. E l’altro, quello istituzionale, il ministro, con il quale io devo confrontarmi e che dimostra un approccio molto più pragmatico e ragionevole. Vero è che sono riuscito a discutere anche con Toninelli…”. 

   

E sullo sciopero generale preventivo di Landini? Condivide? “Condivido tanto che il 29 sarò in piazza, a Bologna. Il giudizio sull’operato di Meloni è molto negativo. Il problema non è tanto che stia governando male, ma che non ha una visione. Si può anche sbagliare qualche mossa, e Meloni ne ha sbagliate tante, ma bisogna aver chiaro dove si vuole andare. Lo vedo nella sanità. Che il Sistema sanitario nazionale sia sottofinanziato è un fatto e, ammettiamolo, era già così quando governava il Pd. Però non c’è solo il problema di metterci più soldi, e di trovarli. Vorremmo capire qual è il disegno per cercare di garantire cure migliori a tutti, e questo non ce lo dice nessuno, forse perché nessuno lo sa. Per esempio, non lo si ricorda mai, ma ancora più grave della carenza di soldi è quella degli infermieri, che proprio non si trovano anche perché è stata completamente sbagliata la programmazione degli accessi alla professione. Qui ancora la sanità tiene, ma per esempio ormai è chiaro che Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto non riusciranno più a curare i malati gravi di tutta Italia com’è successo finora. Al Sud che cosa si vuol fare? Qualcuno ci sta pensando? Oppure prendete la politica industriale. Da quanti anni non se ne fa una, in Italia. Ma per un grande paese rinunciare alla politica industriale è come tentare di costruire un grattacielo con una cazzuola”. Insomma, sembra di capire, se il tempo dell’utopia è per fortuna finito, che resti almeno una visione. “Una politica che non viva di spot e di post, ma che abbia chiara la direzione da prendere. E nel caso di questo governo, francamente, io non la vedo”.

 

Presidente, ci sarebbe anche la politica estera. “Ah, ma quella non la faccio certo io da Bologna, anche se sono preoccupato perché Trump metterà i dazi sul parmigiano-reggiano, e questo è un problema serio”. Sì, però c’è l’Ucraina. Il campo largo, così compatto quando si tratta di salvare l’Emilia, si disunisce quando si tratta di salvare Kyiv. Armi o trattativa? “Tutt’e due”. No, così è troppo facile. “Ma no. Un conto sono gli aiuti, che sono indispensabili perché l’Ucraina deve potersi difendere da un’aggressione brutale. Un altro la trattativa, perché è chiaro che prima o poi bisognerà sedersi a un tavolo per trovare una soluzione politica. La trattativa senza aiuti non regge, ma gli aiuti senza trattativa non hanno senso. E mi lasci dire che su questa come su altre questioni di politica estera non mi sono mai sentito non rappresentato dal mio partito”. Ecco, appunto, il Pd. Al congresso, lei si schierò con Bonaccini. Però Schlein l’ha candidata e l’ha sostenuta. “Sì, Elly Schlein ha avuto un ruolo determinante. Alla fine, la scelta del candidato alla presidenza della regione toccava a lei e lei ha voluto me, anche se io al congresso avevo votato con convinzione per Stefano. Quindi vorrei dirlo con chiarezza, anche a Cerasa: io non sono per nulla l’anti Schlein, che è la mia segretaria”. Però lo sa che molti, fra cinque anni o fra dieci o fra quel che sarà, la vedrebbero bene alla testa del partito… “Ma per carità. Gliel’ho già detto: io adesso farò esattamente quel che ho sempre voluto fare, il presidente dell’Emilia-Romagna. Non ho altre ambizioni. E mi piace che nel partito ci sia una classe dirigente abbastanza giovane e, diciamo così, plurale. Perché plurale, sempre di più, è la società alla quale dobbiamo proporre delle sintesi politiche in cui possa riconoscersi”. 

 

Amen, tempo scaduto. Come finale va benissimo, tanto più che il presidente per ora solo incoming (la proclamazione ufficiale arriverà questa settimana, poi ci sarà la giunta da decidere con le solite virtuosistiche mediazioni) adesso ha da fare. Deve andare a Ravenna, alla scuola del figlio, per i colloqui con i prof del fanciullo. I conti si faranno fra cinque anni, ma a naso quel gran pezzo dell’Emilia-Romagna sembrerebbe in buone mani. L’abbiamo già detto, che alle volte c’è vita perfino a sinistra? 
 

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