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L'editoriale dell'elefantino

Abbiamo invidiato gli altri sistemi di governo, ora tutti studiano il nostro

Giuliano Ferrara

Tra problemi spinosi come la Brexit, le convulsioni di Downing street e il falllimento dell'ipotetica ristrutturazione macroniana, bisogna rivedere quasi tutto della politologia europea applicata all’Italia. Come siamo passati da essere strapaese a una nazione senza scosse

La nostra forma di stato è la Repubblica parlamentare pura. Per decenni siamo andati avanti con la proporzionale come legge elettorale. Se vi leggete i diari di Ettore Bernabei, riprodotti in un volumetto del Mulino a cura di Piero Meucci, vedrete che abbiamo cominciato a integrare il diverso e l’incompatibile da subito, subito dopo il grande scontro del 1948 tra De Gasperi e Togliatti. E già Resistenza e ciellenismo, il prototipo delle unità nazionali future, avevano realizzato un grado di integrazione formidabile, che tornerà più volte a farsi sentire come sistema politico elastico, assorbente, trasversale, trasformista. D’altra parte anche all’origine dell’unità nazionale italiana, oltre all’eroismo mameliano, c’era un famoso connubio tra destra e sinistra (Cavour-Rattazzi). Fino a ieri tutti, tutti noi dico, in senso autocritico, abbiamo pensato che ogni sistema di governo era migliore del nostro, causa di frammentazione e instabilità e delegittimazione. Abbiamo invidiato l’uninominale secca all’inglese, il doppio turno semipresidenziale alla francese, il federalismo e il proporzionalismo tedeschi. 


Abbiamo pensato che il bipartitismo americano, più il presidenzialismo, faceva scuola, stava in cattedra. Ora tutti studiano la stabilità italiana, un sistema parlamentare capace di ricorrere se necessario alla risorsa tecnica dei governi del presidente, nelle emergenze, congegni arbitrali capaci di autorevolezza e di amministrazione intelligente delle transizioni. Tutti si domandano: come hanno fatto gli italiani a integrare Grillo e Oz, leghisti e populisti arrabbiati e assemblati in un contratto? Oppure: come hanno fatto a dotarsi di un anticipo di Trump, ma benigno, mite, costituzionale, capace di dare spettacolo, riscattare la politica dall’elitismo della noia e della combriccola, immerso nel demagogico e nel mattocchio ma con le cautele del liberalismo metodologico, moderato, e perfino capace di lasciare una buona eredità, cosa inimmaginabile fino a ieri, del partito iperpersonale di un Berlusconi? Oppure: come se la sono sbrigata con i fascisti, subito riammessi con riserva nella veste nostalgica dell’Msi, poi riciclati e reimmessi nel circuito del pragmatismo e del mainstream dopo la ventata berlusconiana, o con i ben altrimenti baldanti comunisti, motore propulsivo di trasformazioni democratiche e sociali malgrado il loro legame stalinista con l’Unione sovietica?

Della politologia europea applicata all’Italia forse bisogna rivedere parecchio, quasi tutto. Lo dicono ormai in molti, e non solo da noi, guardando a problemi spinosi come la Brexit e le convulsioni di Downing street, il fallimento dell’ipotesi fantastica di ristrutturazione macroniana in Europa, con il taglio delle ali che è diventato il trionfo delle ali estreme, guardando alla dissipazione del potere dopo i sedici anni del cancellierato Merkel, e dopo la sua controversa eredità diesel sperperata in coalizioni green, elettriche, che si fermano al semaforo alla prima occasione. Oppure guardando alla tendenza autoritaria e minacciosa, sebbene da considerare anche alla luce dei contrappesi rimanenti, che è il trumpismo degli Stati Uniti, massimo caso di bipartitismo diviso e irreconciliabile con effetti autocratici, tendenzialmente molto pericolosi.

Tutti quei governi, uno al minuto, decisi dal gioco delle correnti democristiane, e delle lobby laico-liberali e repubblicane, fino al centrosinistra di Fanfani, Moro, perfino Andreotti, fino al pentapartito e al governo socialista, tutto quel sistema poi inabissatosi sotto il tallone di ferro della magistratura d’assalto ora sembra la premessa di un Bengodi. Certo: tragedie, collusioni, inganni, machiavellismi, prove di forza, incomprensioni e conflitti irriducibili, in apparenza, e misteri, deviazioni, depistaggi, corruzioni, chi più ne ha più ne metta. Ci è successo di tutto, ma non siamo stati sopraffatti dalla governabilità minima, dalle stragi, dalla guerriglia, dagli apparati della Guerra fredda, dalla caduta del Muro di Berlino, dal debito, dai partiti, dai finanziamenti illegali, dalla scomparsa dei partiti, dal populismo, dal secessionismo, dal pansindacalismo: niente ha potuto nuocerci oltre misura, abbiamo sublimato il tutto in riformuzze elettorali minuscole, porcate o giù di lì, atti di convenienza di sistema, connubi vari, che hanno alla fine prodotto il governo quasi perfetto delle Sorelle, che tengono a bada gli imperfettissimi Fratelli. E ora questo sistema di integrazione progressiva, così antropologicamente italiano, così tipico della storia degli italiani (nessun altro paese ha una storia dei francesi o degli inglesi o dei tedeschi, altrove si fa storia di stati e nazioni) è oggetto di sollecita attenzione per ogni dove, pare che l’insieme regga meglio che altrove nell’assorbimento delle scosse di un tempo di aspra divisione e di guerra. Forse è troppa grazia, e bisogna affidarsi a sant’Antonio, ma è una circostanza curiosa sulla quale va aperta una riflessione, questa che ci fa passare direttamente dallo strapaese alla nazione senza scosse e convulsioni che altri ora sperimenta.  

 

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.