invasioni di campo
I casi Scarpinato e De Bonis: il Parlamento sotto attacco delle toghe
Non si ferma la tendenza di una certa magistratura a picconare le prerogative riconosciute dalla Costituzione ai membri del Parlamento. Ecco due nuovi casi dopo quelli di Renzi ed Esposito. La Consulta dovrà di nuovo prendere posizione contro le esondazioni delle toghe
Non si ferma la tendenza di una certa magistratura a picconare le prerogative riconosciute dalla Costituzione ai membri del Parlamento. Ci riferiamo a istituti come l’autorizzazione all’utilizzo delle intercettazioni o l’insindacabilità per le opinioni espresse nell’esercizio della funzione, concepiti dai costituenti non come privilegi dei singoli parlamentari, ma come strumenti volti a tutelare l’autonomia del Parlamento da indebite interferenze. Proprio alla fine dello scorso anno, su queste pagine abbiamo evidenziato il prezioso lavoro svolto nel corso del 2023 dalla Corte costituzionale per difendere le prerogative dei parlamentari dalle invasioni di campo della magistratura. Con due sentenze molto importanti, la Consulta si è espressa per tutelare le prerogative costituzionali dei membri del Parlamento dall’invadenza delle toghe.
La prima riguarda il senatore Matto Renzi: i pm di Firenze lo hanno indagato per il caso Open, arrivando a sequestrare gli smartphone dei suoi colleghi e amici per leggere i messaggi e le e-mail da lui inviate. I giudici costituzionali, però, hanno stabilito molto chiaramente che i messaggi elettronici (come chat WhatsApp o e-mail) scambiati da un parlamentare sono riconducibili alla nozione di corrispondenza tutelata dall’articolo 68 della Costituzione. Di conseguenza, quando i magistrati sequestrano smartphone o dispositivi elettronici di terze persone e riscontrano la presenza in essi di messaggi intercorsi con un parlamentare, devono sospendere l’estrazione di questi messaggi e chiedere l’autorizzazione del Parlamento, cosa che la procura di Firenze non ha fatto.
La seconda sentenza significativa della Consulta ha riguardato il caso dell’ex senatore Stefano Esposito, intercettato indirettamente per tre anni circa 500 volte dalla procura di Torino senza autorizzazione del Senato e poi rinviato a giudizio per gravi reati (corruzione, turbativa d’asta, traffico di influenze), dalle quali è stato recentemente prosciolto, senza che né il pm torinese Gianfranco Colace né la gup Lucia Minutella si siano prima rivolti al Senato per chiedere l’autorizzazione a utilizzare le captazioni. Un fatto mai avvenuto prima, puntualmente censurato dalla Consulta, che ha affermato in maniera molto netta che i magistrati torinesi (ora sotto procedimento disciplinare al Csm) hanno agito al di fuori delle regole costituzionali.
La tendenza di certi magistrati a disattendere in maniera palese le norme della Costituzione si è confermata negli ultimi mesi. Ieri abbiamo ricordato la vicenda che riguarda il senatore M5s Roberto Scarpinato, intercettato indirettamente 33 volte dalla procura di Caltanissetta nell’ambito di un’inchiesta che coinvolge Gioacchino Natoli, ex presidente della Corte d’appello di Palermo. Nonostante Scarpinato non fosse indagato, e nonostante le chiacchierate con l’ex collega Natoli non hanno alcuna rilevanza penale, le conversazioni sono state trascritte dalla polizia giudiziaria su ordine dei pm. Alcuni mesi fa, poi, la procura di Caltanissetta ha trasmesso alla commissione Antimafia, della quale Scarpinato fa parte, le intercettazioni che coinvolgono Scarpinato, senza alcuna autorizzazione preventiva da parte del Senato. Ora il M5s ha scoperto improvvisamente il valore dell’articolo 68 della Costituzione e chiede che sia sollevato un conflitto di attribuzione di fronte alla Consulta.
Il conflitto di attribuzione è invece stato sollevato dal Senato nelle scorse settimane con riferimento al caso che riguarda un ex senatore, Saverio De Bonis, eletto nei Cinque stelle e poi passato in Forza Italia. Tralasciando le idee a dir poco stravaganti avanzate nel corso del suo mandato da De Bonis (in particolare sulla xylella e sul grano importato), ciò che è avvenuto ha dell’incredibile.
Sottoposto a procedimento penale per diffamazione per un post pubblicato su Facebook quando era senatore, De Bonis ha sollevato più volte al tribunale di Matera l’eccezione di insindacabilità, sostenendo che le opinioni espresse avessero un collegamento con la propria attività di parlamentare. A dispetto di quanto previsto dalla legge n. 140 del 2003, attuativa dell’articolo 68 della Costituzione, il giudice non ha né sospeso il procedimento né trasmesso gli atti al Senato affinché decidesse sulla sussistenza o meno dell’insindacabilità, ma ha direttamente emesso la sentenza (peraltro di condanna nei confronti di De Bonis). Una chiara violazione della Costituzione, che ha spinto il Senato ad avanzare un conflitto di attribuzione tra poteri dello stato.
La Consulta, ancora una volta, sarà chiamata a difendere la Costituzione e il Parlamento dalle esondazioni della magistratura.