Il colloquio

Giorgio Parisi: “Sulla ricerca servono più fondi, Meloni ascolti gli scienziati"

Gianluca De Rosa

L'intelligenza artificiale, l'Europa, il rapporto tra scienza e industria e il nuovo ruolo di Elon Musk. Chiaccherata con il fisico italiano premio Nobel nel 2021

“La ricerca? Sui fondi siamo tornati indietro, Meloni ascolti le società scientifiche. L’intelligenza artificiale? Non è un pericolo ma serve regolarla e studiarla anche a livello europeo. Musk? Il rischio è che nel suo nuovo ruolo possa favorire le sue industrie”. Giorgio Parisi, premio Nobel per la fisica nel 2021, ex professore all’università di Roma la Sapienza e già presidente dell’Accademia dei Lincei guarda a questo 2024 che si appresta a finire con speranze e preoccupazioni. A partire da una delle cose che gli sta più a cuore: il futuro della ricerca in Italia.

 

L’Accademia dei Lincei lo scorso anno aveva preparato un piano dettagliato per chiedere al governo di rendere stabili i finanziamenti, dopo che, grazie al Pnrr, i fondi stanziati erano arrivati a un soffio dall’un per cento del Pil, in linea con i livelli di finanziamento nel resto d’Europa. “Purtroppo – dice al Foglio – oggi siamo tornati indietro e i fondi sono diminuiti, parlando con diversi rettori tutti mi hanno confermato che hanno difficoltà a chiudere i bilanci. Se si fanno tagli percentuali lineari su tutti i ministeri senza aggiungere fondi aggiuntivi  si mette in difficoltà l’università, la premier Meloni dovrebbe ascoltare le richieste della comunità scientifica. Circola l’idea sbagliata che l’Italia può andare avanti senza ricerca, ma non è così: una società industriale non vive senza ricerca”. Ma è solo una questione di fondi o c’è un problema di organizzazione del sistema? “I soldi servono, ma è chiaro che ci sono molte cose che potrebbero funzionare meglio. Ci sono una serie di pesantezze amministrative nella gestione dei fondi che complicano le cose. Faccio un esempio: nel mercato obbligatorio per la pubblica istruzione la procedura per fare gli acquisti per gli enti di ricerca è la stessa di una Asl, ma i centri hanno bisogno di cose specifiche, così tutta la procedura diventa farraginosa. Ci sono decine di proposte per piccoli cambiamenti che possono essere fatti, a partire dall’Iva: è una follia che atenei e centri di ricerca debbano pagarla. Poi – continua Parisi – c’è il problema più serio: la programmazione a lungo termine, anche sul capitale umano. Da cinquant’anni andiamo avanti a singhiozzo: prima non si assume nessuno e poi si fanno delle enormi infornate. Io stesso da ricercatore a Frascati sono entrato con un posto permanente perché una legge ha stabilizzato tutte le persone che il 24 aprile del 1975 avevano un contratto a tempo determinato. Poi,  all’inizio degli anni 80  non c’era più un posto a pagarlo oro perché gli assunti avevano riempito tutto il bilancio dell’ente”.

 

Questo per Parisi è solo un tassello: “La programmazione sulla ricerca – dice – andrebbe inserita in un quadro più ampio, con un piano industriale per il paese che oggi non c’è. Serve definire quali sono le industrie da sviluppare nei prossimi dieci anni. Poi, attraverso Cdp, lo stato potrebbe investire  in questi settori. All’interno di questa cornice va inserita anche la programmazione della ricerca in modo da collegare tutto”. Politica, università e ricerca parlano troppo poco? “Un po’ si parla troppo poco, un po’ gli accademici che vanno in politica sono sempre meno, e quando accade spesso si dimenticano dei problemi”. E’ anche un problema di dimensione delle aziende: negli Usa sono le big tech a fare ricerca alla frontiera tecnologica. C’è anche questo problema”, riconosce Parisi. “Ma le industrie grosse vengono da quelle piccole che pian piano crescono”.  


“Il problema – prosegue il premio Nobel – è che in Italia non esiste un modo semplice di raccogliere il capitale di rischio: le banche preferiscono ritorni sicuri, e il sistema finanziario per la raccolta diretta funziona male”. Dei tanti ricercatori che si sono formati con lei quanti sono rimasti in Italia? “Il rapporto è di due che vanno fuori e uno che rimane da noi. Perché senza rapporto di lavoro a tempo indeterminato non puoi avere nemmeno un mutuo. In Francia hanno la regola che anche a livello più basso i ricercatori devono essere assunti entro i 31 anni mentre da noi l’età media per una stabilizzazione è 35/36, troppo alta”. Settori che promettono prospettive strabilianti per il futuro sono intelligenza artificiale e tecnologie quantistiche. Sul primo punto siamo in ritardo? Sul secondo servono interventi straordinari? “Per le tecnologie quantistiche sarebbe utilissimo un finanziamento organico, ma anche l’Ia va ripresa a livello europeo. C’è una proposta per fare una sorta di Cern dell’intelligenza artificiale. Credo sia necessario, perché regolarla è fondamentale ma va prima capito come funziona. Non parlo dei principi generali, ma di come lavora un modello grosso come Gemini, per capirlo serve realizzarlo. Su questo bisogna muoversi”. La spaventa l’Ia? “No, ma va regolata. La legge europea è un inizio, ma serve una regolamentazione globale. Bisogna fare quello che si fece quando le prime auto arrivarono sulle strade. Sfrecciavano a una velocità pazzesca rispetto ai mezzi naturali, e non andavano nemmeno su rotaie come i treni, per evitare il caos si è fatto il codice della strada, con l’Ia bisogna fare lo stesso”. C’è chi dice che sarà una tragedia anche per le professioni intellettuali? “L’Ia permetterà di cancellare la quasi totalità dei compiti ripetitivi, ma questo non significa cancellare le professioni. Faccio un esempio con il giornalismo: se scrivere significa aggregare agenzie è chiaro che l’Ia sostituirà i giornalisti. Ma dare interpretazioni originali è un altro paio di maniche”.

Musk? “I conflitti di interesse - dice - ci sono, se diventa un governante di fatto cercherà di favorire le proprie industrie e non le altre”. Perché è contro le università telematiche. “Le chiuderei tutte. In un paese in cui la laurea ha valore legale è un’aberrazione”.