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Il colloquio

Noi e il fascismo: il ricatto della sinistra e altri inconfessabili complessi

Nicola Mirenzi

Dalle opere architettoniche "più belle del Novecento italiano” al rifiuto della Repubblica “di dare un’immagine di sé agli italiani”. Il costante complesso del fascismo e l'esigenza di tirarlo in mezzo quando non si hanno argomenti da opporre a qualcuno. Intervista a Ernesto Galli Della Loggia

Giorgia Meloni? “No. La forza di fare i conti con il fascismo – anzi, di chiudere una volta per tutte i conti con il fascismo – dovremmo averla noi liberali, democratici, repubblicani, noi che ci riconosciamo, e ci siamo sempre riconosciuti, nella Costituzione. Ma sa qual è la verità?”, domanda Ernesto Galli Della Loggia. “E’ che anche noi – noi che con il fascismo non abbiamo nulla a che fare – subiamo il ricatto di quella parte della sinistra che usa l’antifascismo per i propri scopi politici. La verità è che non siamo in grado di dirgli: ‘Basta, piantatela con l’anatema del fascismo, con la delegittimazione, la scomunica’. E non ci riusciamo perché anche noi, in fin dei conti, temiamo di essere marchiati con l’etichetta di fascisti”.

Da poco in libreria con Una capitale per l’Italia (Il Mulino), formidabile racconto storico della Roma del Ventennio, Galli Della Loggia dice al Foglio che da studente di Scienze politiche della Sapienza di Roma si aggirava con disprezzo tra gli edifici della sua facoltà, firmati dall’architetto prediletto del Duce, Marcello Piacentini. “Allora detestavo quel linguaggio architettonico roboante e retorico. Lo trovavo brutto, insignificante. Poi, agli inizi degli anni Novanta, quando il mio giudizio sul fascismo è stato meno condizionato dal punto di vista politico e ideologico, ho cominciato a cambiare idea. E oggi penso che le opere architettoniche più belle del Novecento italiano siano state realizzate proprio in epoca fascista”.

Si noti che Galli Della Loggia, da storico, non parla di “architettura fascista”, bensì di architettura realizzata durante il fascismo. “Perché nel Ventennio non ci fu un’arte di stato, come accadde invece per il nazismo. I fascisti, scrisse Giorgio De Chirico, non proibirono mai a chicchessia di dipingere come voleva”. E questo è un elemento del fascino, e anche della problematica eredità dell’arte di quel tempo. Poiché furono sinceramente fascisti Libera, Pagano, Terragni, Michelucci, Moretti, Balla, Sironi, ma allo stesso tempo furono autenticamente architetti e artisti. “Ed è il motivo per cui anche la legge oggi riconosce e protegge il valore delle loro opere”. 

Altro che Pnrr. Nel Ventennio, l’Italia divenne un’enorme cantiere. Ovunque si costruirono case Balilla, palestre, campi sportivi, piscine, tribunali, caserme, stazioni ferroviarie. Persino città furono create dal nulla. E su tutto il fascismo impresse il suo segno. Con l’apice a Roma. Trasformata nella città che è oggi, con gli sventramenti, la museizzazione delle rovine, il tremendo trasferimento forzato di popolazione verso le borgate, la monumentalità. Ha mai fatto nulla del genere l’Italia che è venuta dopo? “No. Perché la Repubblica si è sempre rifiutata di dare un’immagine di sé agli italiani” dice Galli Della Loggia, toccando un tema delicatissimo, l’ombra, potremmo chiamarla, dell’Italia antifascista. 

Dopo la fine del regime, l’Italia ha fatto l’autostrada del sole, la sopraelevata di Genova, il traforo del Gran Sasso, l’Alta Velocità, ma non ha mai fatto nulla di simile al Foro Italico o all’Eur. “Perché l’Italia repubblicana ha rinunciato completamente all’idea di grandezza. L’ha ritenuta una dimensione politica pericolosa e l’ha accantonata”. 

Non così è stato in Francia o negli Stati Uniti, dove le istituzioni democratiche hanno impresso un segno forte nello spazio pubblico. Mentre l’Italia si è tirata indietro anche dopo i grandi terremoti, quando si trattava di ricostruire da zero. “La classe dirigente repubblicana ha avuto paura di essere accostata al regime. Ha vissuto una sorta di costante complesso del fascismo. Certo, l’ha fatto anche per prudenza. Per evitare di ricadere in certi errori. Ma c’è stato pure, io credo, il timore di non riuscire a reggere il confronto con il fascismo, cioè di non avere la stessa capacità di mobilitazione di energie e unitarietà di indirizzo mostrata dalla dittatura”. Insomma, un inconfessabile complesso di inferiorità.

In bocca a chiunque altro queste parole rischierebbero di essere tacciate di nostalgia. Non ha paura Galli Della Loggia di finire additato nell’arena pubblica? “No, paura no. Ma, certo, ritengo possibile che diano del fascista anche a me. In Italia, la cosa più semplice da fare quando non si hanno argomenti da opporre a qualcuno, è dargli del fascista. Viviamo in una continua attualizzazione del pericolo fascista. Tanto che il termine fascismo è onnipresente nel dibattito pubblico”. Eppure al governo c’è Giorgia Meloni, non è la prova che la contrapposizione è di fatto finita nel paese? “A lei sembra che si respiri questo clima?”. Non ora, ma domani, chissà. “Io penso che la storia non si faccia con le scomuniche. E finché il fascismo sarà considerato un abominio, anziché essere osservato per quello che veramente è stato, i conti con il fascismo non potranno essere chiusi. Né da noi, né da Giorgia Meloni e il suo partito”. 
 

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