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La storia infinita

L'antifascismo ridotto a ultima scialuppa che non porta ad alcun approdo

Giovanni Belardelli

La guerra è finita da ottant’anni, ma non per tutti. Evocare il pericolo fascista e non consegnare certi fenomeni alla storia rappresenta ormai un'ultima risorsa politica, mossa dalla speranza di mobilitare piazze e incrementare voti e consensi. Con il rischio di perderne ancora di più 

Alcide De Gasperi sostenne nel 1944 che l’antifascismo era “un fenomeno politico contingente” che dunque, a un certo punto, sarebbe stato superato. Così, evidentemente, non è stato e i riferimenti al pericolo fascista, e perciò alla necessità della mobilitazione antifascista, hanno percorso più o meno ininterrottamente i quasi ottant’anni che ci separano dalla fine della guerra. Questo è un fenomeno sotto gli occhi di tutti, come lo è la ragione per la quale ciò è avvenuto: evocare il pericolo fascista, accusare qualcuno d’essere criptofascista ha rappresentato a lungo un’arma politica, capace di mobilitare le piazze e di incrementare i voti. Ma oggi, ecco il punto, perché mai a sinistra si continua su questa strada, quando tutti riconoscono che “la battaglia contro Fratelli d’Italia basata sul tema dell’antifascismo è perdente” (così da ultimo anche l’esponente Pd Goffredo Bettini)? 

Soprattutto nei primi anni o decenni dopo la fine della guerra l’uso strumentale dell’antifascismo serviva, da parte comunista, a delegittimare gli avversari (quante volte la Dc venne accusata dopo le elezioni del ’48 d’essere più o meno fascista) e al contempo a legittimare sé stessi. Cioè un partito legato a Mosca che, non potendo rivendicare credenziali completamente democratiche, esibiva quelle antifasciste conquistate nella lunga opposizione al regime e durante la Resistenza. Nasceva allora l’idea secondo la quale l’antifascismo sarebbe qualcosa di più comprensivo rispetto alla semplice democrazia parlamentare. Un’idea che vediamo ancora oggi in chi si richiama di preferenza, invece che ai valori della democrazia, a quelli dell’antifascismo, concepito in quest’ottica come una delle grandi ideologie della modernità, come il liberalismo o il socialismo.

Il fascismo era caduto ormai da 25 anni eppure un giornalista comunista, Ruggero Zangrandi, poteva scrivere: “Non è il fascismo dei fascisti che preoccupa, oggi. E’ quel tanto di fascismo che si avverte nella macchina dello stato, nella mentalità dei padroni, nella maniera in cui è fatta vivere la gente che lavora e anche nella pratica di certi partiti”. Ed è davvero solo un esempio fra i tanti possibili. Chi usava un linguaggio del genere riprendeva, consapevolmente o meno, quel che affermavano i sovietici quando accusavano di fascismo, di volta in  volta, il maresciallo Tito, gli Stati Uniti, i tedeschi dell’ovest o gli insorti di Budapest del ’56. Ma quel linguaggio ebbe diffusione in un’area più vasta del Pci, che comprendeva vari intellettuali di ascendenza azionista e perfino un cattolico di sinistra come Giuseppe Dossetti, secondo il quale l’anticomunismo riapriva le porte al fascismo. 

C’è stato forse un momento, che possiamo collocare approssimativamente alla metà degli anni Ottanta, in cui parve effettivamente possibile che l’auspicio di De Gasperi sul superamento dell’antifascismo fosse sul punto di realizzarsi. Nel 1987 lo storico Renzo De Felice, intervistato da Giuliano Ferrara per il Corriere della Sera, osservò che il continuo riferimento all’antifascismo stava sempre più perdendo “significato e valore” agli occhi dell’opinione pubblica. L’intervista suscitò discussioni e critiche, ma assai minori di quelle che avevano accompagnato un decennio prima la famosa “Intervista sul fascismo” in cui De Felice aveva sostenuto che tutta quella vicenda era terminata nel 1945. Si poteva cominciare a sperare che il fascismo e l’antifascismo venissero consegnati alla storia, che è poi l’unico modo, come sosteneva Benedetto Croce, per “togliersi di su le spalle” il peso del passato. Ma non avvenne.

Di lì a poco, con il crollo del Muro, veniva meno il principale riferimento internazionale del Pci, che – è vero – criticava da tempo i regimi dell’est ma senza arrivare mai al punto di rottura. Sicché, paradossalmente, proprio quella critica era diventata una componente essenziale della sua identità, che ora veniva a mancare. Difficile trovare nuovi riferimenti ideali, ancor più dopo il terremoto politico seguito alle inchieste di Mani Pulite e la novità rappresentata dalla discesa in politica di Berlusconi. Ci si poteva ancora considerare il partito dei lavoratori adesso che in Lombardia, nelle elezioni del 1994, la sinistra aveva conquistato solo un collegio su settantaquattro? Già l’anno prima un intellettuale tra i più lucidi della sinistra italiana, Luciano Cafagna, aveva osservato che “la sinistra è ormai difficilmente definibile altrimenti che come l’insieme di coloro che ritengono di appartenervi”. In questo quadro, e tanto più oggi che gli avvenimenti internazionali rimettono in discussione le vecchie distinzioni politiche (è di sinistra o di destra sostenere l’Ucraina? E sarebbe davvero di sinistra accusare Israele di genocidio come tanti, a sinistra, ritengono?), in questo quadro – dicevo – si continua a ricorrere all’antifascismo anche se non fa guadagnare, e forse anzi fa perdere, consensi (e voti). Come un’ultima scialuppa che rischia però di non portare verso alcun approdo. 

 

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