Nuove nomine
Dal delitto Biagi all'AI. Chi è Vittorio Rizzi, nuovo capo del Dis
Succede ad Elisabetta Belloni, ha alle spalle molte indagini importanti
Quando Rizzi, nipote d'arte (di Vincenzo Parisi), e poi capo di varie squadre mobili, capì che era finito un mondo e un sistema, con l'arrivo delle nuove tecnologie anche nel crimine. La nomina al Dis annunciata da Meloni durante la conferenza stampa d'inizio anno, il lavoro parallelo di docente, la passione per le nuove frontiere digitali
Un filo lega, attorno al suo nome, la soluzione di un caso drammatico scaturito dalla recrudescenza brigatista (delitto Marco Biagi) a omicidi apparentemente inspiegabili (il cold case anche detto “delitto dell’Olgiata”) alla sicurezza (edifici governativi e città) alla passione non solo teorica per l’intelligenza artificiale applicata al lavoro d’indagine: Vittorio Rizzi, prefetto, sessantacinque anni, due lauree, origini bolognesi e vita romana, ha un curriculum lineare ma non lineari interessi (nel senso che, dice chi ha lavorato con lui, “non ha paura di sperimentare”). E ha dunque “sperimentato nei metodi” di ricerca di indizi e prove, Rizzi, dice chi lo conosce, fin da quando, dopo la prima laurea, ha cominciato a muovere i suoi passi da commissario, nipote d’arte (di Vincenzo Parisi, capo della Polizia dal 1987 al 1994) e “allievo” di fatto di Gianni De Gennaro e Antonio Manganelli nonché investigatore d’alto livello in varie squadre mobili, alla Polstrada e all’Europol (la premier Giorgia Meloni, annunciando la sua nomina durante la conferenza stampa d’inizio anno, lo ha definito “funzionario dello Stato di primo ordine”, capace di “ottenere straordinari risultati operativi apprezzati sia dentro sia fuori dai confini nazionali”). Non è insomma un nome sconosciuto, quello di Rizzi, figura stimata dal sottosegretario Alfredo Mantovano, anche se il prefetto non compare facilmente nelle foto e nelle cronache politiche e mondane e anche se la sua vita privata è avvolta dal fumo della discrezione (“non per niente è un superpoliziotto”, dice un parlamentare). E, in effetti, il curriculum di Rizzi parla di un uomo che, dal 1988, partendo dai gruppi che lavoravano alla cattura dei grandi latitanti di Cosa Nostra, dopo le stragi Falcone e Borsellino, ha scalato la piramide interna alla Polizia, procedendo intanto sul piano dell’insegnamento (il prefetto è titolare della cattedra di Criminologia presso il dipartimento di Psicologia della Sapienza e di Sociologia del crimine all’Università degli studi internazionali di Roma), con specializzazione internazionale nel contrasto alla criminalità economica e informatica.
Ma è stata l’indagine per la cattura degli assassini di Biagi a segnare il punto di non ritorno non soltanto nella carriera di Rizzi, ma anche nell’uso delle nuove tecnologie applicate al contrasto del crimine. Gli uomini di Rizzi avevano allora lavorato, infatti, su codici criptati e algoritmi, oltre che su ore e ore di girato e su una miriade di schede telefoniche da esaminare. “A livello investigativo”, ha detto Rizzi qualche anno fa, ricordando quei giorni, “c’è un prima e un dopo l’omicidio Biagi. In quell’indagine ci furono elementi di avanguardia assoluta, un’esperienza totalizzante che ci ha formato tutti”. Era stato Manganelli a chiamare Rizzi a guidare un pool investigativo di quaranta persone. Si partì dalla ricostruzione minuziosa degli ultimi tre anni di vita del giuslavorista, anche con l’aiuto dei familiari più stretti, a partire da Marina Orlandi, vedova Biagi. Fu poi la morte di Emanuele Petri, ucciso dal brigatista Mario Galesi su un treno, al momento di un controllo documenti, a dare l’avvio al lavoro finale. Da lì si è arrivati all’arresto di Nadia Desdemona Lioce e al complicatissimo lavoro di rincorsa tra numeri telefonici, biglietti da visita, big data e palmari da far decrittare all’Fbi, attorno a brigatisti che si tradivano stranamente nella loro vita “in chiaro”. L’uso di metodi allora avveniristici d’indagine, anche se era soltanto vent’anni fa, portarono Rizzi a una certezza: la fine di un sistema. Così l’ha spiegata la scorsa estate, al Festival del Libro Possibile: “Il mondo è cambiato. Oggi dobbiamo confrontarci con minacce nuove che vanno alle piattaforme criptate al metaverso all’AI. Strumenti nuovi di investigazione ma soprattutto tante nuove armi nelle mani della criminalità”. E, nel 2023, ad Agrigento, alla presentazione del libro Investigare 5.0-Criminologia e criminalistica-Viaggio nel mondo delle indagini”, Rizzi aveva raccontato l’evoluzione della sua materia: “Seguire le scie digitali è molto più complicato che pedinare una persona. Il secolo che viviamo è il secolo della rivoluzione copernicana, si è passati dall’era analogica a quella digitale. Quando entrai in polizia, 35 anni fa, non c’erano i cellulari e i pc, oggi esiste il mondo del virtuale, un mondo nel quale si commette il 64 per cento dei crimini. Oggi i criminali non usano più i pizzini, ma le piattaforme criptate e l’investigazione è diventata una sfida tecnologica molto complessa”.
Ma Rizzi è anche l’investigatore vecchio stile che ha risolto il caso “Villa Alex”, dal nome della casa di riposo dove, nel 2009, sette anziani hanno perso la vita per mano di Angelo Stazzi, anche detto “angelo della morte”. E quando, dopo l’uccisione di Giulia Cecchettin, le forze dell’ordine sono state accusate da più parti di non fare abbastanza per il contrasto alla violenza di genere, il prefetto, intervistato dal Sole24ore, ha cercato di sfatare quello che a suo avviso era un pregiudizio: “Giulia Cecchettin”, ha detto, “rappresenta in questo momento tutte le donne morte per mano di un uomo. E’ la nostra vicina di casa, la nostra compagna di classe, la nostra amica del cuore”.