Il racconto

Le Autostrade Meloni: il difficile rapporto con i fondi, l'urgenza investimenti, l'idea di allungare le concessioni

Carmelo Caruso

L'aggressività dei fondi speculativi, la necessità di ammodernare la rete, ma senza alzare le tariffe. Il rovello di Meloni sul dossier Autostrade che incrocia ancora l'Europa

Il nuovo banco di prova di Meloni è Autostrade. Che rapporto avere con i fondi speculativi? Il governo chiede investimenti, i fondi vogliono dividendi. Luigi Ferraris, l’ex ad di Fibercop, si è dimesso perché in conflitto con i fondi che chiedevano più aggressività.  I fondi presenti in Aspi, la società che gestisce una parte  della rete autostradale,  desiderano che venga remunerata la scommessa fatta nel 2022. Aspi deve approvare il piano di investimenti a breve e ha già comunicato al governo che servono 36 miliardi. Per trovare le risorse due sono le vie: aumentare le tariffe o togliere dal piano opere strategiche concentrate al nord. Entrambe scontentano Meloni. La terza possibile è allungare le concessioni autostradali. Meloni è al casello.

 

Il pedaggio di Meloni è il passato. Il governo sta iniziando a fare conti con le richieste dei fondi speculativi e con una “debolezza”, almeno secondo il governo, di Cassa depositi e prestiti. Dopo il crollo del Ponte Morandi, l’uscita del gruppo Benetton, si è costituita Aspi, una società partecipata da Cdp e dai fondi Blackstone e Macquarie. La società è oggi amministrata da Roberto Tomasi, un ad stimato da Meloni, che però, sempre per il governo, “si trova nell’infelice condizione di servire due padroni, la parte pubblica e i fondi”.  Il ritorno di Autostrade in mano pubblica è stato sancito dal governo Conte ed è stato finalizzato sotto il governo Draghi, nel 2022. Per Palazzo Chigi “ si è pensato allora che i fondi potessero essere addomesticati, ma è stato un errore”. La premier sta registrando in queste settimane “un’aggressività” dei fondi, o meglio, fa i conti con la loro natura. Un esponente di governo dice: “I fondi sono uomini in nero. Chiedono legittimamente dividendi e li chiedono anche per Autostrade”. Lo stato delle ferrovie è ormai cronaca, ma l’Alta velocità (è il pensiero del governo)  interessa alla fine solo una parte degli italiani. Il paese si muove sulle Autostrade e Aspi per ammodernare la rete ha bisogno di 36 miliardi. Sono risorse che lo stato non possiede e che, se anche volesse, non potrebbe iniettare. Per l’Europa l’eventuale iniezione di liquidità sarebbe un aiuto di stato. Il ministero che dovrebbe gestire il dossier è il Mit di Salvini, ma il caso è così delicato che è stato preso in carico da Palazzo Chigi e dal capo di gabinetto di Meloni, Gaetano Caputi. I 36 miliardi di investimenti riguardano tre cluster. Il primo interessa la manutenzione ordinaria e straordinaria. Il secondo: l’adeguamento ponti, viadotti e gallerie. Il terzo riguarda la digitalizzazione e transizione ovvero la costruzione di una rete a misura di automobili elettriche. Il governo ora si chiede: servono davvero 36 miliardi? Tutte le opere che Aspi ci propone sono necessarie? Le più importanti sono ad esempio la Gronda e la A14. Gli uomini di Meloni credono che i fondi abbiano interesse a tenere alto il livello dell’investimento. Serve inoltre ricordare che i 36 miliardi andrebbero moltiplicati per due. Se Aspi chiede 36 miliardi, le altre società che gestiscono la restante parte di Autostrade, chiederanno altrettanto. Si potrebbe rivedere il piano di investimenti ma servirebbero competenze ingegneristiche che il Mit non ha al suo interno. Le opere devono essere fatte, ma cosa accade se si aumentassero le tariffe per opere concentrate al nord? Come reagirebbe il sud? Sono interrogativi di Meloni. La soluzione di Salvini è semplice: gestiamo noi i proventi delle tariffe, riscuotiamo  e poi giriamo ad Aspi. I tecnici lo hanno avvisato e gli hanno spiegato  che sarebbe una violazione perché non saremmo più di fronte a un regime concessorio. La via di Salvini è impraticabile. Le concessioni autostradali scadono nel 2038 e il governo studia la possibilità di allungarle per mitigare e ammortizzare gli investimenti, per scongiurare l’aumento tariffario.  Anche in questo caso si opporrebbe la Ue. E’ stato già avvisato il commissario italiano Raffaele Fitto ed è un altro favore da chiedere all’Europa.  Dunque, rinunciare alle opere di manutenzione ordinaria è impossibile,  rivedere il piano, anche,  togliere dal piano opere strategiche danneggerebbe il nord ma  il sud non ha interesse a pagare per il nord. Un rovello. In mezzo ci sono i fondi con la loro richiesta di dividendi. La prossima sfida di Meloni non è tanto fare dimettere Santanchè ma trovare un equilibrio tra investimenti e fondi. Quando le ferrovie si fermano, ma se anche i viadotti non sono in sicurezza è l’apocalisse. Meloni è costretta a prendersi in carico  la gestione dei trasporti, la parte finanziaria-internazionale. Piero Fassino, riferendosi a Bnl, chiedeva al telefono “abbiamo una banca?”. Oggi Mps, con i suoi soci privati, il gruppo Caltagirone e Delfin (Del Vecchio) prova a scalare Mediobanca. Caltagirone,  Roma, prova a marciare su Mediobanca, Milano. Sono i nuovi “capitani coraggiosi”, vecchia espressione usata da D’Alema, ma sono anche i capitani sui cui punta Meloni per affrancarsi dagli “uomini in nero”: la finanza che non parla ciociaro.

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  • Carmelo Caruso, giornalista a Palermo, Milano, Roma. Ha iniziato a La Repubblica. Oggi lavora al Foglio