L'improbabile scaramuccia dell'avviso di garanzia a Meloni e la ben più seria “ragion di stato”

Maurizio Crippa

Indagare il governo pochi giorni dopo il varo della separazione delle carriere, mentre la riforma si incardina in Senato e la presidente della Corte di cassazione Margherita Cassano rilascia interviste barricadere, è una scelta istituzionale discutibile

"Avvisateli tutti, Dio riconoscerà i suoi”, verrebbe da dire parafrasando Arnaud Amaury, abate di Cîteaux, a proposito dei Catari. Tanto è l’effetto roboante e volutamente debordante che fanno quattro esponenti del governo, una presidente del Consiglio, due ministri e un sottosegretario alla presidenza, presi nello stesso mazzo di un avviso di garanzia. E per di più per reati che – in caso – sarebbero stati compiuti nello svolgimento di funzioni di governo. E un reato, per giunta, quello di “peculato” per uso di un volo di stato, più che risibile. Favoreggiamento e peculato per il rimpatrio del comandante della prigione libica di Mitiga, Almasri: questo l’oggetto dell’avviso firmato dal procuratore di Roma Lo Voi (“lo stesso del fallimentare processo a Matteo Salvini per sequestro di persona”, lo ha accarezzato Giorgia Meloni). Assieme a lei sono indagati Matteo Piantedosi, Carlo Nordio e Alfredo Mantovano.

   

Da una parte c’è la solita manfrina all’italiana degli “atti dovuti”, che è sempre un buon recinto protettivo, finché regge. Le notizie per i reati ministeriali vengono trasmesse al procuratore della Repubblica, il quale “senza compiere nessun tipo di indagine, entro quindici giorni trasmette gli atti al Tribunale dei ministri, dandone immediata comunicazione ai soggetti interessati”. In casi come questo (non sarebbero infrequenti) di solito all’avviso è contestualmente allegata la richiesta di archiviazione.
Però stavolta, stando a Meloni, non è arrivata. Forse perché si ritiene che l’ipotesi di reato esista davvero? Dall’altra parte c’è la mossa a effetto di Meloni, maestra nella difesa-attacco per mettere in difficoltà la procura: il suo video per far sapere dell’avviso e per difendere, con qualche slabbratura concettuale, le scelte fatte con Almasri: “Piuttosto che lasciarlo libero, noi decidiamo di espellerlo e rimpatriarlo immediatamente” è in effetti una risposta debole e abborracciata. Che il caso potesse essere gestito meglio è chiaro: “Il governo italiano ha combinato un disastro, raccontando un mare di balle agli italiani”, ha detto Carlo Calenda.

 

Ma l’ennesima scaramuccia tra magistratura e governo in un clima sempre più teso evidenzia almeno due aspetti in cui è evidente la voluta forzatura della magistratura. Era dai tempi di Borrelli che non si vedeva recapitare un avviso di garanzia a un premier, nel corso di uno scontro tra poteri. Ovviamente indagare il governo pochi giorni dopo il varo della separazione delle carriere, mentre la riforma si incardina in Senato e la presidente della Corte di cassazione Margherita Cassano rilascia interviste barricadere, è una scelta istituzionale discutibile. Bastava far sapere di avere archiviato per mancanza di notizia di reato l’esposto dell’avvocato Luigi Li Gotti, che Rep. si è affrettata a difendere dall’accusa di vicinanza a Prodi, tranne poi ammettere che diventò “sottosegretario alla Giustizia del Prodi II”  in quota Di Pietro. Più grave è la pretesa di chi plaude agli avvisi di garanzia stile crociata contro i Catari che possa essere sottoposta a giudizio della magistratura (il minaccioso pseudo brocardo del “controllo di legalità”) una scelta di governo.

 

Nel caso del rimpatrio di Almasri, al di là di ogni legittimo giudizio etico o politico, è evidente che ci si trova davanti a un tipico atto che risponde a una “ragione di stato”. Lo sbaglio del governo pasticcione è stato semmai di non averlo rivendicato subito. Basterebbe ricordare che, sul ben più complicato e delicato a livello internazionale caso di Abu Omar, ai tempi della guerra al terrore, ben quattro governi italiani (Prodi, Berlusconi, Monti) hanno mantenuto il segreto di stato. Lo si può discutere, ma non se ne può fare un caso di “peculato”. Sarebbe grottesco, se non fosse pericoloso per le istituzioni. Indagare un governo che anteponga ragioni di sicurezza nazionale ad altre ragioni è, per usare le parole di Calenda, “surreale e non accadrebbe in nessun altro paese occidentale”.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"