Sulle esondazioni ha ragione Meloni
Le ragioni che hanno portato alla perdita di credibilità dei magistrati spiegate da due magistrati doc
Luigi Salvato riconosce che gli ambiti di cui si deve occupare il potere giudiziario sono aumentati, come i margini di discrezionalità nella sua attività: deve però resistere all'idea che egli sia sopra ogni potere. Per Margherita Cassano la politica spesso sceglie di non scegliere e lascia spazio di interpretazione ai magistrati
Si può dare torto a Giorgia Meloni quando dice, lo ha detto ieri, che “ci sono alcuni giudici, fortunatamente pochi, che vogliono decidere la politica industriale, vogliono decidere la politica ambientale, vogliono decidere le politiche dell’immigrazione, vogliono decidere se e come si possa riformare la giustizia, vogliono decidere per cosa possiamo spendere e cosa no e che in pratica vogliono governare loro”. E si può dar torto a Meloni quando dice, lo ha detto ieri, che “in Italia ci sono magistrati che fanno di tutto per esondare, per uscire fuori dal proprio argine, arrivando ad aggredire il primato della politica”? Due giorni fa, Giuliano Ferrara ha scritto magnificamente sul Foglio che finché non sentiremo i magistrati riconoscere che ci sono guasti da riparare, che qualcosa bisogna fare, faremo bene a fidarci di più del potere legislativo, che almeno è sottoposto ogni tanto al controllo elettorale.
Trovare magistrati desiderosi di mettere a nudo i propri vizi è un grande tabù di un sistema giudiziario che ha disgraziatamente trasformato la tutela dello status quo in un dogma assoluto, come se non fosse chiaro che il modo peggiore per difendere la credibilità della magistratura, la sua terzietà, la sua affidabilità sia proprio non fare nulla, non toccare nulla, non smuovere nulla, non uscire cioè dalla comfort zone dell’immobilismo che ha contribuito a rendere l’immagine della magistratura così simile a come si presenta oggi dinanzi agli occhi dei cittadini, ovvero poco affidabile, poco credibile, poco terza, poco rassicurante, come dimostra anche l’incredibile faccia tosta con cui i magistrati, attorno al caso Meloni, hanno voluto spacciare una scelta discrezionale (un atto voluto) in una scelta obbligata (atto dovuto). Eppure, se si infila l’occhio nel microscopio della giustizia, qualcosa si trova, qualcosa emerge, e qualcosa, anche se in sordina, è incredibilmente venuta fuori proprio nelle ultime settimane, pochi giorni prima che i magistrati di Roma esondassero aprendo un’indagine contro mezzo governo. E negli stessi istanti in cui i magistrati iscritti all’Anm protestavano contro la riforma della giustizia – per l’Anm protestare contro una qualsiasi riforma della giustizia è come per uno studente del liceo occupare la scuola in autunno, lo si fa, a prescindere dal contesto, in automatico – due pezzi da novanta della Corte di cassazione, venerdì scorso, hanno offerto alcuni elementi interessanti per ragionare attorno a un tema difficile da maneggiare, soprattutto per un magistrato: le inconfessabili ragioni che hanno portato a una progressiva perdita di credibilità di una intera corporazione.
La confessione più interessante, se così si può dire, è quella uscita fuori dalla voce di Luigi Salvato, procuratore generale della Corte suprema di cassazione, venerdì scorso, a Roma, durante l’apertura dell’anno giudiziario. Ed è una confessione che possiamo dividere in sei parti, tanto è densa. Ammissione numero uno: “Vi sono segnali di una crisi di fiducia nella magistratura, preoccupante perché investe uno dei capisaldi dello stato costituzionale di diritto”. Ben detto! Ammissione numero due: “Il consenso è la fonte di legittimazione delle funzioni politiche, non del potere giudiziario, che si radica nella legalità, nell’autorevolezza nello stabilire la verità giudiziaria, attestata dalla motivazione dei provvedimenti che, all’esito di un giusto processo, danno applicazione alla legge”. Giusto! Ammissione numero tre: “Il potere giudiziario, come gli altri pubblici poteri, è fondato sulla sovranità popolare, di questa è espressione la legge ed il suo esercizio è quindi ad essa sottoposto”. Finalmente! Ammissione numero quattro: “La fiducia si recupera realizzando l’equilibrio fissato dalla Costituzione, che esige un forte impegno della magistratura. La centralità della giurisdizione è stata scambiata in qualche caso con l’avvento di una nuova etica pubblica e forse, purtroppo, qualche magistrato lo ha creduto, giungendo talora a forzare il principio di legalità, anche sulla scorta del consenso, con il rischio di una sorta di populismo giudiziario”. Bene, bravo, bis! Ammissione numero cinque: “La magistratura deve dimostrarsi consapevole dell’essenzialità del proprio ruolo con umiltà, senza improprie finalità di redenzione sociale”. Umiltà, ecco! Ammissione numero sei: “Il sapere giuridico è requisito indispensabile, ma non sufficiente per l’esercizio della giurisdizione. Occorre il rispetto delle massime deontologiche che si impongono a chi esercita un potere terribile, il rigore dei comportamenti, più severo che per qualunque altro titolare di pubbliche funzioni, l’etica del dubbio, la disponibilità all’ascolto, il dovere di ragionevole mantenimento della soluzione ragionevolmente conseguita”. E infine: “Lo stato siamo noi, chiediamoci cosa dare, non solo cosa ottenere”. Non ci vuole molto a riconoscere che un insieme di confessioni come queste, arrivate dalla bocca di un magistrato ancora in attività, rappresentano un unicum, che merita di essere valorizzato.
Salvato, in altre parole, riconosce che gli ambiti di cui si deve occupare il potere giudiziario sono aumentati (l’aggressione al primato della politica nasce anche da qui). Riconosce che i margini di discrezionalità nell’attività di un magistrato si sono moltiplicati (l’aggressione al primato della politica nasce anche da qui). Riconosce che il magistrato non dovrebbe mai dimenticare che la sua credibilità è direttamente legata alla sua capacità di esercitare la sua professione con sobrietà (l’aggressione al primato della politica nasce anche da qui). Riconosce che il rigore dei comportamenti è necessario per poter permettere alla magistratura di riappropriarsi della sua terzietà (l’aggressione al primato della politica nasce anche da qui). E riconosce, infine, che il magistrato deve resistere alla tentazione dell’esondazione, all’idea cioè che il magistrato sia sopra ogni potere, ogni valutazione, ogni legge, e che possa dunque autoinvestirsi di un potere improprio, che non è più quello giurisdizionale della lotta contro l’illegalità ma è quello discrezionale della lotta per la redenzione della società. Non è poco riconoscerlo, anche se poi Salvato non fa quel passo in avanti che sarebbe necessario fare una volta messi a fuoco i problemi, cercando cioè soluzioni non solo culturali ma sistemiche, concrete, per ribaltare come un calzino un sistema che non funziona più – un sistema in cui la magistratura è in crisi non perché vi è qualcuno che la delegittima ma perché si delegittima da sola rincorrendo l’utopia tossica della difesa dello status quo. Non è poco, si diceva, avere un magistrato che individua qual è la cornice all’interno della quale la magistratura riesce a trovare lo spazio per muoversi in modo discrezionale, assumendo dunque in molti casi una funzione politica. E in questo senso, un tassello ulteriore per rendere ancora più chiaro il mosaico è quello che ha offerto nella stessa occasione, ancora all’apertura dell’anno giudiziario, un altro magistrato che i lettori di questo giornale conoscono e che risponde al nome di Margherita Cassano. Margherita Cassano, lo sapete, è la presidente della Corte di cassazione, è donna tosta, di potere, garantista, e nella sua relazione, venerdì scorso, ha offerto uno spunto di riflessione prezioso, che merita di essere valorizzato, e che in parte compensa i toni apocalittici consegnati qualche giorno fa al Corriere della Sera sul tema della separazione delle carriere, che Cassano considera profondamente sbagliata in quanto rischierebbe “di tradursi, per una eterogenesi dei fini, in una diminuzione delle garanzie del processo”.
Nell’apertura dell’anno giudiziario, Cassano ha riconosciuto che, nella fase in cui viviamo, vi è “un rilievo inedito della dimensione interpretativa e la moltiplicazione degli spazi di intervento della magistratura”. Più un magistrato è autorizzato a interpretare in modo discrezionale le norme, naturalmente, più aumenterà la sua capacità di esondare. E più aumenterà la sua capacità di esondare e più il magistrato si sentirà legittimato – chiedere ai follower del dottor Lo Voi – a occuparsi sempre meno di legalità e sempre più di moralità, assumendo cioè “improprie finalità di redenzione sociale”. La questione, dice Cassano, deve essere analizzata mettendo a fuoco un tema “non ancora completamente esplorato, che è il delicato tema del rapporto tra diritto, potere e diritti fondamentali”. Il tema, dice la presidente, ha un rilievo centrale “ove si consideri che stiamo assistendo ad una vera e propria euforia dei diritti fondamentali accompagnata dal bisogno di proclamazione di altri ancora, persino quando resta dubbia la loro stessa effettiva natura di diritti fondamentali”. E ancora: “Nella prospettiva della revisione del catalogo dei diritti fondamentali troviamo anche le problematiche dell’inizio e della fine della vita, del testamento biologico, del trattamento terapeutico per malati terminali o incoscienti. In presenza di una linea di tendenza così complessa sussiste il pericolo che la dilatazione della categoria dei diritti fondamentali, senza la preventiva mediazione formale del legislatore, attribuisca impropriamente alla magistratura compiti di sintesi, bilanciamento, armonizzazione”. E infine: “Occorre che su questi temi i magistrati affinino una sensibile maturità e, consapevoli del loro ruolo nell’ordinamento costituzionale, non si ergano a interpreti della coscienza profonda del popolo, così appropriandosi acriticamente dei compiti spettanti ad altre Istituzioni dello Stato”.
La politica, ammette Cassano, spesso sceglie di non decidere, e non decidendo lascia spazi di interpretazione per i magistrati, per prendere parte alla giostra “euforica” dei diritti per tutti. Compito di un magistrato però non è quello di mettere in campo la sua visione del mondo ma è far rispettare la legge. E per far rispettare la legge ed essere terzi ed essere credibili, il porsi sulla scena pubblica come magistrati desiderosi di sostituirsi alla politica è un rischio che una magistratura in crisi non può permettersi. E’ positivo naturalmente che vi siano magistrati in grado di riconoscere gli effetti deleteri che può produrre l’esondazione dei pubblici ministeri. E’ difficile però pensare a come si possano risolvere problemi di portata così ampia difendendo uno status quo che ha contribuito a screditare la magistratura. Chissà dunque che per una volta la direzione indicata dalla politica non sia quella opportuna per aiutare la magistratura a ritrovare quello che oggi sembra avere in larga parte perso: affidabilità, terzietà, credibilità. Viva i magistrati coraggiosi, capaci di sfidare il tabù della propria infallibilità.