Sergio Mattarella (foto LaPresse)

l'editoriale del direttore

Sergio Mattarella e il gran gattopardismo del Quirinale

Claudio Cerasa

Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. I dieci anni di anti populismo del presidente della Repubblica spiegati con Burt Lancaster. Apice: governo gialloverde, vaccino contro l’estremismo. Neo: la giustizia. Cin cin e auguri

Cin cin e auguri. Le celebrazioni per i dieci anni al Quirinale di Sergio Mattarella sono giuste, doverose e persino necessarie. Non solo per questioni statistiche (mai nessuno, nella storia, ha rivestito il ruolo di presidente della Repubblica per un tempo lungo come quello dell’attuale capo dello stato). Ma anche per questioni stilistiche e soprattutto politiche. La caratteristica dei primi dieci anni di Sergio Mattarella (chi può escludere un terzo mandato? scherziamo!) a volerla sintetizzare in poche parole è quella di essere stato il principe di Salina dell’anti populismo, il Burt Lancaster dell’anti estremismo, l’unico in grado di smussare gli istinti più minacciosi del nostro paese mettendo in campo una forma di gattopardismo virtuoso. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi, diceva Tancredi nel “Gattopardo”, sintetizzando con una formula semplicemente formidabile l’aristocratica azione dello zio, il principe Fabrizio Corbera di Salina (interpretato da Burt Lancaster nel celebre film di Luchino Visconti).

   

Nei suoi dieci anni di Quirinale, il Burt Lancaster delle istituzioni italiane ha messo in atto una strategia simile, sottile, vellutata, silenziosa, ma particolarmente efficace. L’anti populismo di Mattarella si è manifestato in numerose occasioni che molti di voi ricorderanno. Basti pensare a quello che il presidente ha detto, in questi anni, sulla difesa dell’Ucraina, e contro il fascismo putiniano. Basti pensare a quello che il presidente ha detto sulla difesa della democrazia liberale, contro i cavalli di Troia dell’autoritarismo. Basti pensare a quello che il presidente ha detto sulla lotta contro l’antisemitismo, contro i finti amici del popolo ebraico. Basti pensare a quello che il presidente ha detto sulla difesa della scienza, contro il cialtronismo anti vaccinista.

 

La linea di Mattarella, la difesa dei valori non negoziabili di una democrazia, è l’unico tratto immutabile degli ultimi dieci anni della nostra Repubblica, durante i quali molto è cambiato anche per evitare di far cambiare pericolosamente qualcosa davvero. In questo senso, il vero capolavoro politico compiuto dal presidente della Repubblica, capolavoro che nelle cronache entusiastiche di questi giorni è stato misteriosamente rimosso, deve essere fatto risalire al 2018, quando a seguito di un’esplosione di populismo il capo dello stato piuttosto che mettersi di traverso è riuscito a disinnescare l’ondata di sovranismo nel nostro paese semplicemente mettendola alla prova. 

   

La ragione per cui l’Italia, quanto a populismo, oggi è un unicum in tutta Europa, e la ragione per cui l’Italia è uno dei pochi paesi europei ad avere un centrodestra e un centrosinistra che sui grandi temi sono vicini al magnifico mainstream europeista e anti populista, è legata proprio a quell’esperienza disastrosa, avallata da Mattarella, grazie alla quale l’Italia ha capito con chiarezza quanto sia pericoloso avere un populismo in purezza alla guida del nostro paese. Il governo gialloverde è stato un incubo ma anche un vaccino. E l’esperienza del governo Conte I è diventata, come dicono gli osservatori colti, una sorta di benchmark al contrario, un punto di riferimento dell’orrore in cui può ritrovarsi la politica, da evitare con attenzione estrema. Gli elettori lo hanno capito, anche grazie al test di realismo a cui sono stati costretti i politici fuori dalla realtà, e dal 2019 in poi i due partiti, M5s e Lega, che hanno tentato di spostare l’asse portante del paese da Bruxelles al Cremlino non hanno mai smesso di perdere consensi. La formula gattopardesca del “se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” ha permesso all’Italia di combattere il populismo facendolo addirittura governare, arrivando dunque al massimo del cambiamento possibile per provare a non cambiare nulla. Ma se dovessimo invece individuare un tema e solo un tema su cui il gattopardismo riformista e benemerito del presidente della Repubblica non ha funzionato fino in fondo, quel tema potrebbe essere individuato ragionando attorno a un dossier che pure è caro al capo dello stato: la giustizia. In questi anni non sono mancate le occasioni in cui il presidente della Repubblica ha mostrato di avere a cuore la necessità di lavorare per avere una giustizia più giusta, una magistratura meno esondante, un Csm più credibile. Il 3 febbraio del 2022, nel giorno del discorso per il suo secondo insediamento al Quirinale, fu proprio Mattarella a ricordare il lavoro che deve ancora fare la magistratura per “corrispondere alle pressanti esigenze di efficienza e di credibilità”, ricordando quanto la magistratura debba superare “logiche di appartenenza che, per dettato costituzionale, devono restare estranee all’Ordine giudiziario” e riconoscendo quanto siano oggi “fortemente indeboliti nella coscienza dei cittadini” due princìpi “preziosi e basilari della Costituzione” come “l’indipendenza e l’autonomia”. Negli ultimi tre anni, in alcune occasioni il presidente è tornato sul tema. Ma lo ha fatto con un’incisività che è apparsa minore rispetto a quella mostrata su altri campi. E la grande speranza dei prossimi quattro anni di presidenza mattarelliana è che il presidente della Repubblica, che è anche capo del Csm, trovi la forza – il coraggio non gli manca – per aiutare l’Italia a combattere quella che rappresenta oggi una delle forme di estremismo più pericolose che vi siano in circolazione: il populismo penale. Dove per populismo penale, naturalmente, non si intende solo la tendenza patologica dei governi ad aumentare le pene per mostrare fermezza su temi sensibili per l’opinione pubblica. Si intende qualcosa di ancora più importante: combattere la tendenza dell’Italia a diventare sempre di più una Repubblica fondata sull’attivismo delle procure, sulla discrezionalità dei magistrati, sui pieni poteri delle correnti, sull’irresponsabilità di una corporazione che tende con disinvoltura a violare i princìpi costituzionali del giusto processo foraggiando con tutti i mezzi a disposizione l’orrore del processo mediatico. Per proteggere la democrazia liberale, almeno su questo punto, occorre che tutto cambi per evitare che tutto rimanga com’è. Viva Mattarella, il nostro Burt Lancaster principe non di Salina ma delle istituzioni italiane.

 

Cin cin e auguri.
 

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.