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Schlein e la sinistra nella bolla del moralismo

Andrea Graziosi

Un Pd pigro e afono: coltiva ideali ma non vede la realtà ed è quindi incapace di produrre politiche adeguate per affrontare disagi e insicurezze. Denatalità e invecchiamento, istruzione di massa, declino dell’Europa e immigrazione: quando i nodi vengono al pettine. Indagine sul moralismo di sinistra

“A chi ogni tanto ci accusa di non avere una visione io rispondo: certo che ce l’abbiamo, anche bella forte… è quella che tiene inscindibilmente insieme la giustizia sociale, la giustizia climatica, il lavoro dignitoso, l’innovazione, i diritti delle persone. Magari a qualcuno non piace, ma ce l’abbiamo”. Così, secondo Repubblica, Elly Schlein ha definito le fondamenta su cui riposa il programma di un Pd al quale dovrebbe essere quindi assai facile – partendo da ideali tanto ragionevoli e generosi – assicurarsi il sostegno della maggioranza della popolazione. Chi, tranne pochi malvagi e gli ingenui da loro ingannati, si opporrebbe a giustizia, dignità, innovazione e diritti? Ma se è vero che Schlein è riuscita a garantire la sopravvivenza del Pd, non sembra che questa visione riesca ad allargare un consenso fattosi magro e ricresciuto solo a spese dell’area che una volta un Pd ben più grande rappresentava direttamente.

Il problema è che quella visione vale sempre e per qualunque paese. Essa è insomma l’espressione di lodevoli convinzioni e preferenze morali, non il frutto dell’analisi realistica della situazione concreta in cui oggi italiani ed europei si trovano a vivere. In quanto tale è incapace di produrre politiche per affrontare insicurezze, disagi e insoddisfazioni reali le cui cause non sono indagate ma piuttosto implicitamente imputate a malvagità e stupidità. Non si sta bene, insomma, perché c’è chi ci vuol far stare male o non capisce, e il rimedio non può quindi che stare nell’introduzione di norme che, se approvate, dovrebbero per forza avere anche un carattere repressivo, e nel moltiplicarsi di risorse che tutti sanno mancare e sentono in via di restringimento, a meno di fantastici – e certo auspicabili – progressi nelle nostre conoscenze. 

La visione e la “politica” del Pd risultano quindi poco credibili e non trovano per questo grande sostegno, e il gruppo dirigente del partito, malgrado il suo impegno, appare afono: chi parla a tutti e per tutti i tempi, esprimendo esigenze morali, non riesce infatti a parlare a nessuno in particolare, ed è condannato a diventare l’espressione di gruppi beneducati e benevolenti, autoisolati nella propria bolla, e questo nel migliore dei casi, ché la realtà trova sempre il modo di “penetrare” moralismo e moralisti.

E’ auspicabile che un giorno il Pd trovi il tempo e la voglia di riflettere su come e perché un gruppo dirigente ad esso esterno gli sia stato imposto da una parte di quello, interno, che lo aveva portato alla sconfitta ed è riuscito così a non far fronte alle sue responsabilità. Ma si tratta di cosa tutto sommato secondaria

Molto più interessante sarebbe indagare le ragioni che hanno portato la sinistra in generale a lasciare la politica per il moralismo, con tutte le conseguenze che ne sono derivate. In Italia (ma il fenomeno è proprio dell’intero “mondo bianco”) si dovrebbe partire da una riflessione su Craxi, Berliguer, Berlusconi e la sinistra democristiana, per cui i tempi sono maturi. Ma dietro quel passaggio vi sono tre eventi “epocali”. Il primo è il tracollo del comunismo, che ha trascinato con sé il socialismo e con esso la visione a fondamento delle politiche operative della sinistra, un tracollo che Craxi non fu capace di vedere e cui Berlinguer rispose sostituendola con moralismo e perbenismo. Il secondo è la contemporanea affermazione dell’istruzione, anche superiore, di massa, un fenomeno della seconda metà del XX secolo che ha prodotto enormi benefici ma anche fornito a quel perbenismo e ai buoni sentimenti una base molto più estesa di quella del passato. Il terzo è costituito dell’ingannevole, ma forte e quindi prolungata sensazione che, malgrado la crisi degli anni Settanta, seguendo politiche opportune si potesse tornare a tempi migliori e che quindi le cose avrebbero ripreso ad andar bene.

Ciò è stato vero specie in un’Europa che ha potuto rinviare scelte dolorose aumentando il debito pubblico ma anche con l’allargamento della Comunità economica prima (e dell’Unione poi) in un continente cui il collasso dei regimi socialisti sembrava promettere la pace perpetua. Forse anche per questo ci si rifiutò di ragionare sulla crisi jugoslava e di interrogarsi su cosa volesse dire – dopo il 1991 e il progressivo allontanamento, anche “etno-culturale”, degli Stati Uniti dall’Europa – continuare ad affidare a Washigton la difesa del continente.

Per alcuni decenni, quindi, la riduzione della politica alla morale sembrò funzionare. La sinistra europea ha così a lungo rinviato un aggiornamento della sua analisi della realtà e delle sue soluzioni per essa, aggiornamento che una destra sconfitta negli anni Sessanta e Settanta del Novecento fu invece obbligata a impostare. Intanto però la storia camminava veloce, seguendo percorsi imprevedibili: la crisi del nuovo Occidente nato nel 1945, annunciata dal crollo del sistema di Bretton Woods, dal collasso della natalità (scesa in quasi tutti i paesi europei dal 1972 sotto la soglia che garantisce la riproduzione) e dall’invecchiamento della popolazione, dalla fine della decolonizzazione e dalla crisi del 1973, dalle riforme economiche di Deng Xiaoping e dal trionfo di Khomeini, apriva le porte – specie in Europa – a un’epoca di aspettative decrescenti. Essa è stata dapprima affrontata col debito (uno strumento cui ci si continua irrazionalmente ad affidare, come ci ricordano Superbonus e Pnrr), ma anche e più intelligentemente con l’allargamento della comunità e l’aumento dell’istruzione, capaci di produrre miglioramenti strutturali. E’ invece e purtroppo mancato un impegno della portata necessaria a ridare alla scienza europea il suo lustro, mentre ideologie apocalittiche danneggiavano la nostra industria e le nostre capacità energetiche, già messe legittimamente in difficoltà dalla concorrenza dei paesi emergenti

La sfida di gran lunga più importante e interessante oggi di fronte a una sinistra italiana e europea (ma anche nordamericana) chiamata a fare il suo aggiornamento è quindi quella di cogliere i tratti essenziali della nuova epoca in cui viviamo; vedere i problemi che da essi scaturiscono; trovare il modo più intelligente per affrontarli, e quello più convincente per spiegarne il motivo. Il problema è come minimizzare danni e pericoli, salvaguardando libertà e benessere individuali oggi messi in causa non solo e non tanto da politiche e chiusure sbagliate, talvolta stupide e persino crudeli, ma soprattutto da un mondo che non è più quello in crescita del passato. 

Non è possibile fare qui un’analisi dei principali di quei tratti e di quei problemi, ma la loro evidenza ne permette una breve rassegna. Essi derivano in primo luogo dalle dinamiche della popolazione, da una denatalità che dura ormai da 50 anni e dal velocissimo processo di invecchiamento di italiani e europei. Nel nostro paese il tasso di natalità è passato dal 2,43 del 1970 all’1,21 del 2024 (ricordiamo che 2,2 è quello necessario al mantenimento della popolazione esistente), mentre l’età media è salita da circa 34,5 a 46,6 anni. Vale la pena di sottolineare che entrambi i fenomeni, che hanno conseguenze pesanti e negative su servizi, produttività, sistema sanitario, pensioni, condizioni di vita ecc. sono stati causati da cambiamenti positivi: l’aumentato benessere collettivo e la maggiore istruzione delle donne il primo, e le conquiste mediche il secondo, cambiamenti di cui non si può certo auspicare l’azzeramento, sicché siamo alle prese con un problema di difficilissima ma indispensabile soluzione, di cui per fortuna si comincia almeno a prendere coscienza dopo decenni di rimozione.

A complicare le cose, psicologicamente e politicamente, c’è il fatto che questa crisi demografica è venuta dopo una crescita rapidissima che ha spinto per due secoli anche spontanemente e dal basso verso un’omogeneizzazione etno-culturale delle popolazioni europee, un processo cavalcato, di regola in modo odioso e spesso omicida, da politiche di stati e avanguardie spesso di ibrida ispirazione “nazional-sociale”. Un’omogenizzazione così rapidamente ottenuta, e indicata come fine tanto dalla destra nazionalista e fascista quanto dalla sinistra (ché questa era l’essenza delle ben intenzionate politiche “nazionalpopolari” italiane come dell’espulsione di tedeschi, ungheresi, italiani caldeggiate da Stalin in Europa orientale) è chiamata oggi a confrontarsi con un velocissimo capovolgimento di direzione che non è facile gestire.

Il secondo gruppo di problemi è quello che discende dal declino dello status e della posizione dell’Europa in un mondo che aveva a lungo dominato, incarnato da una decolonizzazione che ha rappresentato anche una sconfitta del potere del nostro continente. Anche questo è stato indubbiamente un cambiamento positivo, almeno dal punto di vista degli ideali di giustizia e libertà che amiamo identificare con l’essenza dell’esperienza europea (ma che spesso tali non sono stati). Sicuramente, però, questa perdita di status e questo ridimensionamento, che hanno anche coinciso con un impoverimento relativo, è alla radice di una parte del sordo malcontento che da qualche decennio attraversa strati non piccoli della popolazione di un continente abituato a regnare sul mondo e che si è scoperto marginale. 

Il terzo gruppo è di nuovo il prodotto di un cambiamento direttamente e molto positivo, e per questo sorprendentemene ben accolto malgrado la sua novità, vale a dire il velocissimo diffondersi dell’istruzione anche superiore e universitaria di massa. Il suo impatto è stato nel complesso benefico, ma se ne cominciano a vedere anche i problemi. Faccio solo due esempi: il primo è quello del risentimento di una parte della popolazione maschile di fronte a una macchina che filtra e gerarchizza gli studenti anche ai fini del reddito, e lo fa in base a criteri e capacità che in tutto il mondo sembrano più connaturati a quelli posseduti dalle donne, come indicano tutti i dati relativi a titoli acquisiti, voti riportati ecc. Il secondo è la crescita spontanea, specie in chi ce la fa, di ideologie basate su un concetto falso e falsante di merito: io sono medico, ingegnere, dirigente perché ho studiato e me lo merito, tu fai una vita inferiore perché a questa hai provato di essere adatto. Ora, è chiaro che conviene a tutti che le mansioni più complesse siano affidate ai più dotati, che ne ricavano maggiori guadagni, ma il talento ha forti componenti genetiche, casuali e sociali e non è quindi un merito ma un vantaggio. Più che vantarsene, chi ne gode dovrebbe sentirsi in qualche modo obbligato a ripagarne la società che gli dà la possibilità di dispiegarlo. La falsa ideologia del merito, che pervade in tempi di istruzione di massa sia la destra che la sinistra (e in Italia persino i Cinque stelle) suscita invece sentimenti e comportamenti sgradevoli in chi ce l’ha fatta e acuisce il risentimento e la rabbia di chi non è riuscito.

Come sta diventando sempre più evidente, questi ultimi arrivano anche per questo a detestare moralismo, buone maniere, buoni sentimenti e consigli autorevoli che gli sembrano interessati, untuosi e comunque “ostili” anche quando sono fondati e necessari al benessere collettivo.

Il quarto gruppo di problemi, strettamente legato al primo, riguarda l’immigrazione, che è da qualche decennio forse la questione che più influenza le dinamiche elettorali dei paesi una volta definiti avanzati. Secondo la Ragioneria generale dello stato, l’Italia avrebbe per esempio bisogno nei prossimi venti anni di milioni di immigrati solo per non far degradare il tenore di vita e lo stato sociale che abbiamo creato nei decenni del benessere. Certo, in nome della sua omogeneità un paese può scegliere di chiudersi e andare verso un declino triste e relativamente veloce. Ma può anche fare politiche attive e legali di immigrazione, cercando di stimolare quella ad esso più adatta e più accetta alla sua popolazione (una cosa indispensabile vista la scala necessaria e l’invecchiamento di “nativi” che sono anche per questo meno aperti alle novità e al diverso di quanto non lo fossero da giovani), di facilitarla e di sostenerne l’integrazione. 

 

                                            

 

Non è insomma facile, ma non è nemmeno impossibile, cercare di gestire una “diversificazione” notevole e necessaria: occorre fare il possibile perché essa sia compresa e accettata, e arricchisca invece di diventare il fattore scatenante di una chiusura reattiva che produce solo negatività e declino, fenomeni la cui forza è ogni giorno confermata dai trend elettorali europei. Per riuscirci, o almeno per provarci, va prima di tutto capito che l’Europa non è più un forte che aiuta il debole, ma un debole che ha bisogno di aiuto e deve anche per questo imparare a riconoscere e affrontare gli spesso sgradevoli sintomi e sentimenti di fragilità, anche psichica, generati dalla sua nuova condizione.

Questi sintomi sono confermati da un comportamento elettorale erratico, dall’estendersi dell’astensionismo e dal manifestarsi di effimeri successi (Renzi, Grillo, Salvini, forse Meloni) legati a esplosioni di malcontento e ostilità contro le “élite”, seguiti da subitanee delusioni che disegnano un quadro di disagio che prende forme maniaco-depressive. Esso potrebbe sfociare nella rassegnazione e nello stabilizzarsi di democrazie delegate o dirette, cioè in fenomeni autoritari di tipo nuovo, come quelli comparsi in Russia o in alcuni paesi est-europei, ma anche negli Stati Uniti di Trump, dove hanno assunto caratteristiche assolutamente peculiari rispetto a quelle europee. Il Make Europe Great Again di recente auspicato da Musk non ha per esempio le risorse che può mobilitare il MAGA americano, prodotto da un paese allo stesso tempo più avanti e paradossalmente più indietro del Vecchio continente, perché ha ancora dentro di sé un’energia straordinaria, simile a quella che animava le nostre convulsioni di qualche decennio fa.  

Le nostre risorse sono invece e purtroppo di gran lunga inferiori, anche se questo non basta a escludere scoppi di rabbia sgradevoli e auto-lesionisti. Sarebbe dunque indispensabile agire in fretta, costruendo quel programma concreto, tagliato sulle caratteristiche del nostro nuovo mondo che il Pd di Schlein non prova neanche a immaginare. E farlo pensando in maniera radicale a quanto sarebbe davvero necessario fare per rallentare e deviare, se non invertire, fenomeni essenzialmente negativi. E’ per esempio davvero immaginabile intervenire sull’andamento demografico con palliativi, certo benvenuti, come piccoli aiuti, più asili nido, o più elasticità, o non servirebbero piuttosto interventi molto più forti, che si potrebbe provare a immaginare anche, ma non solo, guardando alle esperienze migliori, come quella francese? E come spostare risorse importanti e potere anche politico a favore della popolazione più giovane? O come aiutare la parte più taletuosa di questa popolazione a formarsi nel migliore e più aperto modo possibile, e come sostenere con decisione la scienza e l’intelligenza italiana e europea? E se è vero che, date le dinamiche demografiche mondiali, l’immigrazione è una grande risorsa temporanea, visto che in pochi decenni la denatalità arriverà anche in Africa, come profittarne nel modo più proficuo possibile per noi e per gli immigrati? 

Tutto ciò richiede un approccio rigorosamente realistico, che va esteso all’analisi politica e alla politica estera. Non è possibile leggere la destra di oggi con strumenti costruiti per combattere il fascismo, il conservatorismo e i ceti dominanti di una volta. E occorre comprendere le ragioni della contraddittorietà “essenziale” di leader che malgrado comportamenti ipermoderni e una vita personale “trasgressiva” – come del resto è quella di gran parte di chi li vota (e di me che scrivo) – si appellano con successo, e spesso sinceramente, a “valori tradizionali” di cui evidentemente si sente la mancanza proprio perché non ci sono. Meloni, definita razzista e patriarcale, è cresciuta in una famiglia di donne forti e ferite da un maschio, e cita Michael Jackson, una rockstar nera dai comportamenti al limite del lecito, come maestro di vita oltre che di inglese. Weidel, la leader dall’AfD tedesca, specialista del sistema pensionistico cinese, vive in Svizzera con la sua compagna e i loro figli, una “famiglia”, che meno tradizionale non si può. E sarebbe facile continuare: tutti sappiamo della tolleranza di Berlusconi, la Le Pen ha avuto a lungo un compagno ebreo (cosa stupefacente alla luce del tradizionale antisemitismo della destra francese) e se non si sapesse di chi sono sarebbe facile leggere lunghi passaggi dei discorsi di Geert Wilders, il capo della destra olandese, convincendosi che si tratti di testi di un cultore della libertà. E’ evidente che tutto questo col fascismo di una volta semplicemente non c’entra, e che combattere queste nuove destre con le categorie e gli slogan costruiti per combattere le “nuove destre” di cento anni fa vuol dire solo diventare la causa della propria sconfitta. 

Il realismo è anche indispensabile per vedere cos’è l’Unione europea, preziosa associazione di stati per il beneficio proprio e dei loro abitanti, ricoperta però da fortissime incrostazioni retoriche che ne nascondono l’essenza (che è quella dell’Europa delle nazioni di de Gaulle) e ne impediscono la trasformazione in una vera Unione di cui ci sarebbe estremo bisogno nel nuovo mondo in cui viviamo. Queste incrostazioni sono anch’esse intessute di buone intenzioni e di legalismo, perbenismo, pacifismo ecc., formalmente ineccepibili. Rimuoverle, senza abbandonare ma rinnovando e attualizzando i princìpi cui si ispirano, è  tuttavia una necessità vitale: l’alternativa a una nostra difesa e a un arsenale nucleare europeo è semplicemente l’irrilevanza internazionale, il diventare pedine in un mondo governato da poche, grandi potenze, come accadde agli stati della penisola italiana cinquecento anni fa. Lo stesso realismo andrebbe applicato alle relazioni da un lato con gli Stati Uniti, con cui i nostri rapporti di amicizia devono essere salvaguardati a tutti i costi, smettendo tuttavia di credere che si tratti ancora di una “figlia”, di un’Europa fuori d’Europa, e dall’altro con la Nato, anch’essa preziosissima ma che andrebbe rinnovata per farne un’alleanza globale e non più solo “atlantica” e per rafforzare l’autonomia in essa dell’Unione europea.

E’ insomma il tempo di sforzarsi di vedere la realtà e di capirne le contraddizioni, che sono spesso espressione di conflitti tra esigenze e disagi comunque veri e degni di riconoscimento e comprensione. Poi certo dovrebbe venire il momento di elaborare un discorso che riconosca le verità di tutti ma sia capace di metterle motivamente in una scala ragionevole e perciò spiegabile. Sarà quello il tempo di un libero arbitrio individuale e collettivo guidato però da idee e illuminato dalla morale, e quindi sempre relativo e fallibile, non da un moralismo che non può sbagliare perché immobile e quindi per definizione falso. E sarebbe bello che tutto ciò si facesse in fretta, perché le conseguenze anche di piccoli ritardi in questo aggiornamento rischiano di essere molto pesanti.
 

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