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Il retroscena

Meloni a Casellati: la nuova legge elettorale con il premierato. La ministra a Tajani: "Le preferenze danneggiano FI"

Simone Canettieri

L'input della premier alla responsabile delle riforme, mentre va avanti la separazione delle carriere: il 5 marzo il neo presidente dell'Anm atteso a Palazzo Chigi

 L’unica riforma che Giorgia Meloni in questo momento ha in testa, per più di un motivo, è quella della giustizia: sulla separazione delle carriere va avanti spedita, sapendo che l’incontro del 5 marzo con il neo presidente dell’Anm sarà sicuramente un gesto simbolico di galateo istituzionale, ma che non sortirà effetti. Dopo lo sciopero del 27 Cesare Parodi sarà a Palazzo Chigi dal Guardasigilli Carlo Nordio, dal sottosegretario Alfredo Mantovano e dalla premier. La parte centrale di un tour – fra audizioni in Parlamento, incontro con i gruppi e infine ricevimento al Quirinale – che non farà cambiare idea a Meloni. Al contrario è più cespuglioso il destino del premierato visto che la presidente del Consiglio nei giorni scorsi ha telefonato alla ministra Elisabetta Casellati per avvisarla che “dobbiamo parlare della riforma e della nuova legge elettorale”.  

Anche se la segretaria del Pd Elly Schlein nega qualsiasi contatto con l’avversaria su questo argomento, così   poco popolare, i contatti tra i vertici di FdI e Pd ci sono stati. Anche perché, come ragiona il viceministro della Giustizia di Forza Italia Francesco Paolo Sisto, “è naturale e doveroso che la legge elettorale si faccia discutendo con l’opposizione”. Casellati, che non è certo una novizia del Parlamento, dice che “si va verso una legge proporzionale con il ritorno delle preferenze, come vorrebbe Fratelli d’Italia, anche se vorrei ricordare agli entusiasti di questo modello nel mio partito, a partire dai vertici, che le preferenze potrebbero danneggiarci su scala nazionale a favore del primo partito della coalizione: quindi è un azzardo, attenzione”. 

Casellati avrà il compito, o comunque l’indicazione, di far dialogare il premierato, che una volta era la madre di tutte le riforme e ora sembra la zia di tutti gli oblii, con la nuova  legge elettorale. Ancora fumosa, quanto impalpabile se non per alcune indiscrezioni che rimbalzano in Transatlantico ormai da settimane: via i collegi uninominali, sì a liste plurinominali proporzionali. Il tutto con un premio di maggioranza del 55 per cento dei seggi per la coalizione che supererà una soglia ancora da definire (lontana comunque dal 40 per cento del Porcellum bocciato dalla Consulta), con la possibilità – ma sono teorie da divanetto del Transatlantico – di un altro sbarramento, questa volta del 51 per cento dei seggi per chi arriverà al 35 per cento. Meloni lavora a tutto campo per sé e anche per il resto della maggioranza che guida. Sta attenta a diffondere dispacci sulla legge elettorale perché sa che potrebbero essere interpretati come indizi per un voto anticipato che al momento non sta proprio nella sua testa, lei che punta alla stabilità. Se dunque da una parte ha la Lega di Matteo Salvini da gestire, come raccontato dal Foglio nei giorni scorsi, lasciando uno spazio di manovra interno al capo del Carroccio (che passa anche dalla conferma del Veneto a un leghista), dall’altra sembra essere molto interessata a progetti centristi. Non solo perché Maurizio Lupi, leader di  Noi moderati, sembra destinato a correre per diventare sindaco di Milano. Ma soprattutto perché il “partito della nazione”, vagheggiato anche dalla sorella Arianna durante l’ultima direzione di FdI, dovrebbe aprirsi il più possibile. 

In questo scenario per esempio la disponibilità di Luciano Ciocchetti, deputato di FdI con Dna democristiano, a correre per il Campidoglio è stata ben accolta da un pezzo importante del partito romano, a dispetto delle legittime ambizioni di Fabio Rampelli, autorevolissimo esponente della prima ora, considerato sul Foglio da Ciocchetti “non vincente al ballottaggio” perché non in grado di allargare consensi al secondo turno. Questa voglia di centro – mentre dall’altra parte del campo sotto le insegne di Ernesto Maria Ruffini qualcosa sembra muoversi – passa anche dall’ex segretario della Cisl Luigi Sbarra, considerato in via della Scrofa una “persona su cui puntare per ampliare il nostro bacino cercando anche di frenare le mire di Forza Italia”. Argomenti da accademia in questo momento, a Palazzo Chigi, alle prese con le ripercussioni delle iniziative di  Trump in campo economico e militare, per non parlare della questione russo-ucraina che ha spinto ieri tutti i leader di maggioranza – a partire da Meloni – a solidarizzare con il capo dello stato Sergio Mattarella attaccato da Mosca per il paragone con il Terzo Reich.    Tutti, tranne uno: Matteo Salvini, che ha esposto Paolo Formentini, restando in silenzio.

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  • Simone Canettieri
  • Viterbese, 1982. Al Foglio da settembre 2020 come caposervizio. Otto anni al Messaggero (in cronaca e al politico). Prima ancora in Emilia Romagna come corrispondente (fra nascita del M5s e terremoto), a Firenze come redattore del Nuovo Corriere (alle prese tutte le mattine con cronaca nera e giudiziaria). Ha iniziato a Viterbo a 19 anni con il pattinaggio e il calcio minore, poi a 26 anni ha strappato la prima assunzione. Ha scritto per Oggi, Linkiesta, inserti di viaggi e gastronomia. Ha collaborato con RadioRai, ma anche con emittenti televisive e radiofoniche locali che non  pagavano mai. Premio Agnes 2020 per la carta stampata in Italia. Ha vinto anche il premio Guidarello 2023 per il giornalismo d'autore.