Marco Minniti (ansa)

La trappola delle identità

Trump e le guerre, l'Italia e l'immigrazione: "Benvenuti a Caoslandia". Parla Minniti

Ruggiero Montenegro

"Almasri? Un caso gigante di sicurezza nazionale. La Libia ha un impatto diretto su di noi. Il protocollo Albania? Pericolosa divaricazione dall'obiettivo strategico, servono accordi con l'Africa. Il piano Trump per Gaza? Si rischia l'intifada globale". Il negoziato per l'Ucraina? "Paghiamo omissioni e ritardi. Accelerare l'ingresso di Kyiv nell'Ue"

"In Libia si gioca, per varie ragioni, una sfida fondamentale per la nostra sicurezza nazionale”. La tregua a Gaza e le trattative di pace? “Bisogna fare attenzione, estremamente. C’è il rischio di un’intifada globale”. Mentre sull’Ucraina, dice Marco Minniti, “l’Europa ha fatto uno sforzo straordinario. Non era scontato. E tuttavia avrebbe potuto fare ancora di più. Se Kyiv oggi fosse parte dell’Unione europea la situazione sarebbe diversa e anche i negoziati”. E poi c’è l’immigrazione, “i movimenti di persone, contro cui i muri non possono nulla. Ma nemmeno ‘accogliamoli tutti’ può essere una soluzione. Quello dei paesi terzi  – aggiunge – è un approccio tattico, emergenziale. Occorre invece una visione strategica, fatta di accordi con i paesi africani”. Sono pezzi, vicini e lontani, di quello che Minniti definisce: “Caoslandia. Un mondo sempre più disordinato, ma ormai iperconnesso in maniera ineluttabile. E che oggi deve fare i conti con il ritorno di Donald Trump, l’America First, e con la nuova accelerazione dell’unilateralismo americano”.

Minniti è il presidente di Med’Or, la fondazione nata su iniziativa di Leonardo, che si occupa di relazioni e scenari, di soft power, di ricerca e diplomazia. Da qualche settimana la fondazione si è allargata con l’ingresso di Eni, Enel, Fincantieri, Cdp, Snam, Terna, Poste e Ferrovie dello Stato. Da Leonardo Foundation, Med’or è diventata così Italian Foundation. Minniti ne è a capo dal 2021, quando rassegnò le dimissioni da parlamentare. “Tra qualche giorno saranno quattro anni. Con la politica ho chiuso”. E’ stato ministro degli Interni, tra i primi a stringere accordi con la Libia. Una scelta che rivendica ma che ancora gli rimproverano a sinistra, e continua a far discutere. Tanto più alla luce dei fatti delle ultime settimane. In Parlamento c’è stato per 20 anni. Ha militato nella Fgci e poi nel Pci, quindi Pds, Ds e Pd. “Quella del 2021 è stata una scelta definitiva e senza rimpianti. Ho vissuto quella stagione con intensità. Ma ora mi occupo di altro”, ci spiega all’inizio di questa lunga conversazione, mentre legge con attenzione i lanci d’agenzia: l’attentato a Monaco, la Conferenza internazionale sulla sicurezza, Zelensky, Putin e la Cina. Sulla scrivania ci sono dei cornetti rossi, le foto dei suoi cani, “ne ho cinque”, insieme ad altri scatti: momenti personali e istituzionali di una lunga carriera. Nel suo ufficio c’è una collezione di aerei militari: “Anche un Sukhoi russo”, sorride. Poi Minniti si fa più serio addentrandosi man mano nell’analisi dei temi caldi, e assai complessi, di questa fase storica e politica. 

 

"Benvenuti a Caoslandia"

“Viviamo in un mondo iperconnesso, in cui l’ordine a cui eravamo abituati non esiste più. L’arrivo di Trump è un ulteriore elemento di destabilizzazione che dobbiamo considerare. Qualcuno ne è sorpreso, ma il presidente americano sta facendo esattamente quello che ha detto in campagna elettorale”, è la premessa di Minniti. “In questo scenario così caotico dobbiamo comprendere che una parte sempre più grande di quello che viene considerato l’interesse nazionale si gioca fuori dai confini nazionali. Può sembrare una contraddizione in termini, ma  – prosegue il presidente di Med’Or – è il più lucido dei presupposti da cui partire”.

 

L'immigrazione, la necessità di fare accordi con l'Africa e l'interesse nazionale

Partiamo da qui allora. Nel contesto appena descritto qual è la posta in gioco per l’Italia? “Un pezzo decisivo del nostro interesse nazionale, ma aggiungerei anche di quello europeo, si gioca nel Mediterraneo e in Africa. La Libia, in questo senso, è emblematica. Un caso scuola”, dice Minniti. Cosa ci spiega? “La Libia non è il punto di partenza delle migrazioni, ma un paese di transito. E’ un luogo in cui si manifestano con evidenza gli squilibri demografici tra il continente africano e quello europeo. Un delta che continuerà a crescere, come hanno di recente certificato con un nuovo studio le Nazioni Unite. Questo ci impone ancor di più, nei prossimi anni, di misurarci con il tema delle migrazioni”. Un fenomeno che l’ex ministro considera strutturale nella storia dell’umanità, ragion per cui ogni approccio emergenziale, inevitabilmente, non può dare risposte adeguate. “L’unica strategia possibile è considerare i movimenti delle persone come un qualcosa che non si può fermare. Non ci sono muri che tengano. Quello che si può e che si deve fare è governare il fenomeno, tenendo bene a mente che l’alternativa ai muri non può essere: accogliamoli tutti”. 
 
E’ questo un assunto che Minniti considera inevitabile, se davvero si vuole mettere a fuoco il tema. “E non riguarda solo l’Italia, ma il dibattito pubblico internazionale. Pensiamo alle recenti elezioni inglesi e a quelle che si terranno tra qualche giorno in Germania, in cui il tema dei migranti è decisivo. L’immigrazione è l’esempio più classico di quella che definisco ‘la trappola delle identità’”. Cosa intende? “Da una parte l’accoglienza indiscriminata, dall’altra le deportazioni: posizioni sempre più polarizzate. Ma nel momento in cui il dibattito pubblico diventa uno scontro tra identità contrapposte, senza possibilità di confronto, e senza la ricerca di una sintesi, si perde una delle cifre essenziali della democrazia. E’ uno schema in cui viene meno ogni possibilità di visione riformista”. Senza dimenticare, e in questo caso Minniti sembra rivolgersi direttamente alla parte politica da cui proviene, che “nel conflitto tra identità, fino a oggi, non abbiamo esperienze in cui a prevalere sia stata l’identità progressista. Vincono i conservatori, se non proprio la destra radicale. Gli Stati Uniti, per chi avesse dubbi, ne sono la dimostrazione”.

Ragioni che spingono Minniti a ritenere che solo un sistema di accordi, su più livelli, tra paesi europei e africani possa portare a un efficace governo delle migrazioni. “Negli scorsi anni la Spagna e l’Italia, che hanno governi molto differenti, e non li cito casualmente, hanno fatto accordi in Africa. Il nostro paese ha rinnovato quelli con la Libia, ne ha stretti altri con Tunisia e Costa D’Avorio. Mentre il socialista Pedro Sánchez ha siglato intese con Senegal e Mauritania. Questo tipo di politica ha prodotto dei risultati: in Italia abbiamo registrato circa un meno 60 per cento di arrivi nel 2024, una diminuzione particolarmente significativa. Adesso occorre fare un passo in più”. 
 
La principale obiezione rispetto a questo tipo di politiche, tornate al centro del dibattito italiano dopo il caso Almasri (capo della polizia giudiziaria libica, accusato di crimini di guerra e contro l’umanità), riguarda i diritti umani. Chi li garantisce nei paesi africani? “Quello che serve è un co-protagonismo tra Europa e Africa. Io penso che il 2025 debba essere l’anno per fare un salto di qualità.  Un vero e proprio patto tra Unione europea e Unione africana sull’immigrazione legale e sul comune contrasto ai trafficanti di esseri umani, con garanzie reciproche, e con la partecipazione della Nazioni Unite”, risponde Minniti secondo cui la presenza dell’Onu è assolutamente fondamentale. “Perché consente di affrontare il tema dei diritti umani, appunto. Ogni accordo deve prevedere una crescita di questi diritti, attraverso quella che tecnicamente si chiama diplomazia esigente. Credo che oggi ce ne siano le condizioni. Ed è questo che intendo per scelta strategica”. 

 

"Ricorrere ai paesi terzi è una non soluzione"

E’ una strada sulla quale Minniti insiste da tempo, sebbene negli ultimi mesi a prevalere sia stato un altro approccio. Quello che riguarda i cosiddetti “paesi terzi” e rispetto a cui il presidente di Med’Or non ha mai mostrato grande entusiasmo, Tanto per il modello inglese quanto per il protocollo Albania che ci chiama in causa direttamente. “Ricorrere ai paesi terzi è una non soluzione. E’ una scelta tattica, direi di tipo emergenziale”. E i precedenti, o meglio l’unico precedente concluso, non è incoraggiante. “Possiamo valutare solo l’esperienza del Regno Unito. Nessun migrante alla fine è stato trasferito in Rwanda, l’iniziativa è finita drammaticamente, con i conservatori che hanno pagato un prezzo catastrofico dal punto di vista elettorale. E mentre noi pensavamo che la massima ambizione del paese africano fosse ospitare i migranti dall’Inghilterra, il sospetto avanzato delle Nazioni Unite è che il Rwanda stia sostenendo i ribelli dell’M23. Sono quelli che hanno preso il controllo del dipartimento minerario di Goma, il più importante distretto della Repubblica democratica del Congo. Lì si consuma una partita cruciale sul rame e sui metalli rari. Questo ci fa comprendere quanto la realtà possa essere ben più complessa e che nei rapporti con ogni paese, grande o piccolo che sia, è necessario tenerne conto”. 

 

Il Protocollo Albania: "Una pericolosa divaricazione dell'obiettivo strategico"

L’Italia sta provando a fare qualcosa di simile con l’Albania, attraverso un percorso che per il momento non ha prodotto risultati, ma piuttosto polemiche e sentenze. “E’ una scelta emergenziale, lo ripeto, su cui ho già espresso delle riserve. Per adesso ci sono delle evidenti difficoltà, vedremo se e come si evolverà. Ritengo in ogni caso che i centri in Albania rappresentino una pericolosa divaricazione rispetto all’obiettivo strategico”, è il ragionamento. Minniti cita a questo proposito Sun Tzu, il generale cinese autore dell’“Arte della guerra”, uno dei più importanti trattati sulla strategia militare. Sun Tzu sosteneva che la strategia senza tattica è la via più lunga per arrivare alla vittoria. La tattica senza strategia è invece solo il rumore di fondo della sconfitta. “E’ questo il rischio che corriamo, l’appiattimento tattico: l’idea cioè che in un mondo così complesso si possa scegliere la scorciatoia. Una comunicazione accattivante può aumentare il consenso in una parte della curva, ma non risolve i problemi. Anzi rischia di aggravarli”.

 

"Almasri? Un gigantesco caso di sicurezza nazionale"

Le foto delle deportazioni  di Trump sono un esempio di questo tipo di comunicazione, ma immagini simili sono arrivate anche dal Regno Unito del laburista Keir Starmer. E pure in Italia non siamo immuni, in qualche misura il nostro governo sembra far ricorso a certi stratagemmi. E’ successo per esempio (ma non solo) sul caso Almasri, quando la premier Giorgia Meloni ha scelto di parlare attraverso un video sui social, evitando di affrontare la questione centrale di tutta questa storia. “La vicenda Almasri si colloca in maniera molto chiara e netta in una dimensione di sicurezza nazione, gigantesca”, è convinto Minniti. “Non c’è dubbio alcuno da questo punto vista. Anche al netto della ricostruzione dei singoli eventi, naturalmente importanti ma che in questa circostanza specifica non sono decisivi per dare un giudizio complessivo”. 
 
La valutazione, ragiona l’ex ministro, non può dunque in nessun modo prescindere da quello che la Libia ha rappresentato, rappresenta e continuerà a rappresentare per l’Italia. “Il caso Almasri avrebbe avuto un impatto immediato e non solo dal punto di vista delle migrazioni. La Libia è tecnicamente uno stato fallito, ci sono due governi ampiamente scaduti. A ovest c’è una presenza militare turca molto forte, a est ci sono i russi. Anche la loro presenza sul territorio è importante e potrebbe presto diventarlo ancora di più: esiste la seria possibilità che gli asset russi di stanza in Siria vengano trasferiti rapidamente in Cirenaica. Il sud è invece conteso. In questo scenario, le milizie libiche sono diventate un pezzo di stato. La Rada force, a cui anche Almasri appartiene come capo della polizia giudiziaria libica, gestisce i servizi aeroportuali, i confini del paese”. Un contesto decisamente complicato che per Minniti deriva in gran parte dalle scelte operate dalla comunità internazionale nel nord Africa negli scorsi anni. Di fatto, sostiene l’ex ministro, hanno generato caos e instabilità. “E’ il frutto di una drammatica illusione, come se bastasse cacciare un dittatore per creare una democrazia progressiva. Nessuno ha nostalgia dei dittatori, sia chiaro. Ma non funziona così. L’abbiamo visto anche in Afghanistan, dove abbiamo creato condizioni ancora più drammatiche di quelle che c’erano prima. Se non si comprendono questi aspetti è impossibile capire tutto quello che è sta accadendo”.

Su Almasri però anche il governo italiano c’ha messo del suo, cambiando più volte versione, rincorrendo cavilli giudiziari e varie ricostruzioni, anche contraddittorie. Non sarebbe stato più facile, e onesto, invocare la ragion di stato e il segreto? “Io non credo che su Almasri ci fosse una ragion di stato, che può derivare anche da una necessità di carattere politico. E nemmeno l’interesse nazionale, che può essere legato a interessi economici. Questi temi esistono, ma vengono dopo. Qui si tratta prima di tutto di sicurezza nazionale, davanti alla quale uno stato può prendere anche decisioni apparentemente discutibili dal punto di vista etico. Quando si tratta di difendere la vita e l’incolumità dei tuoi cittadini, questo viene prima di ogni altra cosa. E non significa certo non avere rispetto per le organizzazioni multilaterali, come può essere la Corte penale internazionale”. 

 

Oltre Almasri, l'importanza strategica della Libia secondo Minniti. Tra economia e terrorismo
 

E’ indubbio in ogni caso che in Libia si giocano varie partite, tutte rilevantissime. E forse non solo per l’Italia. “Certamente ci sono altri aspetti”, conviene Minniti. Di cosa stiamo parlando? “C’è una questione che si lega all’economia e all’energia. Dopo la guerra in Ucraina, l’intera Ue ha guardato all’Africa. Senza i paesi africani non ci saremmo mai affrancati dalla dipendenza del gas russo. Avremmo certamente dovuto pensarci prima, quando nel 2014 c’è stata l’invasione della Crimea, ma non è andata così. Poi il quadro è cambiato ulteriormente dopo l’attacco a Kyiv del 2022: l’Europa ha dovuto sostenere il popolo ucraino in una sacrosanta, fondamentale, battaglia di libertà. Non era scontato, soprattutto di fronte al rischio di nuovi grandi flussi migratori da sud, come quelli del 2015-16, e con le bollette fuori controllo. Questa è la verità e bisogna tenerne conto analizzando il contesto attuale”. 
A questo si somma poi un altro elemento direttamente legato ancora alla Libia. Riguarda la prevenzione, la lotta al terrorismo nelle sue varie forme. Dirette o indirette, come l’attentato di giovedì scorso a Monaco sembra ricordare. “In questo momento – dice Minniti – l’Africa è, insieme con l’Afghanistan, il principale incubatore del terrorismo internazionale”. Nel continente africano ci sono infatti le varianti autoctone di Al Qaida e dello Stato islamico. “Che in questa fase sono per lo più impegnate in vari conflitti di carattere civile. Ma non possiamo dimenticare che soltanto pochi anni fa la capitale della Libia moderna, Sirte, era in mano a Islamic state. Con il timore che potesse diventare una piattaforma d’attacco verso l’Italia e verso l’intera Europa. A liberare Sirte – ricorda il presidente di Med’or – non è stato un intervento internazionale, ma le tanto vituperate milizie libiche. Una visione unilaterale delle questioni insomma è sempre povera e non veritiera, fuorviante”.


Il terrorismo, gli attentati a Villach e Monaco: "Le nostre società sono fragili, vanno difese"

Le agenzie intanto continuano a scorrere sul computer di Minniti. Ricostruiscono che l’attentato di Monaco, in cui sono morti una bambina di due anni e sua madre,  è stato compiuto da un afghano, passato anche per l’Italia. Le autorità tedesche hanno parlato di “un orientamento islamista” da parte del 24enne attentatore e di “un movente religioso”. La stessa matrice terroristica su cui indagano le autorità austriache dopo che sabato nella città di Villach, a sud di Vienna, un 23enne  richiedente asilo di origine siriane, secondo le prime indagini con regolare permesso, ha accoltellato cinque passanti, uccidendo un ragazzo di 14 anni. Cosa ci dice tutto questo? “C’è un filo rosso che tiene insieme molte delle questioni di cui stiamo parlando, un collegamento che spesso rischiamo di non vedere inseguendo la quotidianità. L’attentato a Monaco  – osserva Minniti  – è avvenuto a pochi giorni dalle elezioni tedesche, in una campagna elettorale difficilissima, dominata dal tema immigrazione, al centro dello scontro tra il cancelliere uscente, il socialista Olaf Sholz, e quello che potrebbe succedergli, il leader della Cdu Friedrich Merz. L’attacco di giovedì inevitabilmente interferirà sul voto e metterà in crisi entrambi i poli, portandosi dietro il rischio di una ulteriore radicalizzazione. Mentre AfD, il convitato di pietra, continua a crescere. E anche in Austria l'estrema destra  approfitterà di quanto successo a Villach”. 
Non è questa, comunque, l’unica indicazione che il presidente di Med’Or trae dai fatti di Monaco. Ce n’è un’altra di carattere generale, e forse ancora più grave, che interroga direttamente tutto il mondo occidentale. “L’attentato si è verificato a Monaco alla vigilia della Conferenza internazionale sulla sicurezza, a cui hanno partecipato Volodymir Zelensky e alti esponenti della nuova amministrazione americana, leader europei, Ursula von der Leyen. Era insomma uno dei posti più sorvegliati al mondo in questo momento. Eppure è successo”, sottolinea Minniti. “Non possiamo abbassare la guardia rispetto al terrorismo internazionale, in tutte le sue varianti. I fatti di Monaco e di Villach, per chi avesse ancora dubbi, arrivano dopo l’attentato di Solingen e quello di Magdeburgo. Eventi che ci raccontano purtroppo quanto siano fragili le nostre società. E’ quasi un paradosso: l’unica cosa a cui non possiamo rinunciare, a meno di non voler perdere noi stessi, è il principio della società aperta. Ma dobbiamo anche proteggerci, garantire la sicurezza a ogni livello. Questa è la sfida decisiva”. 


L'Ucraina, i negoziati con la Russia e i ritardi di Bruxelles: "Accelerare con le procedure d’ingresso di Kyiv nell'Ue"

Sono tematiche emerse anche nella Conferenza sulla sicurezza di venerdì scorso, che tuttavia ha avuto come elemento centrale, e non poteva essere diversamente, il negoziato tra Russia e Ucraina, soprattutto dopo l’accelerata impressa dalla presidenza Trump. “E’ una situazione ancora in evoluzione. Per l’Europa resta in ogni caso l’imperativo categorico di non abbandonare nemmeno per un attimo Kyiv. L’Unione europea – dice Minniti – è arrivata a questo appuntamento avendo fatto uno sforzo straordinario e tuttavia anche pagando il prezzo di lentezze e omissioni”. Almeno in questa prima fase l’Ue sembra giocare infatti un ruolo di secondo piano nelle trattative portate avanti dagli Stati Uniti, da Donald Trump che ha avuto un colloquio con il presidente russo Vladimir Putin. “La chiave poteva e doveva essere l’ingresso dell’Ucraina nell’Ue. In questo modo Bruxelles non avrebbe mai potuto essere scavalcata, l’Europa sarebbe stata coinvolta automaticamente”, prosegue Minniti ripercorrendo gli eventi di questi quasi tre anni di guerra. “Lo stesso Zelensky sarebbe stato molto più forte, avrebbe avuto la forza di appartenere a un grande comunità politica, economica e di difesa. Anche se quest’ultima, la difesa europea, naturalmente deve diventare una scelta sempre più netta e convinta da parte dei paesi Ue”. A Monaco intanto la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha usato parole che vanno in questa direzione. Ha chiesto un aumento delle spese militari, aprendo all’ipotesi di scorporare questi investimenti dal Patto di stabilità. “Un segnale molto positivo. Insieme a questo – aggiunge l’ex ministro – tutta la discussione sul negoziato russo-ucraino dovrebbe spingere l’Ue non a lamentarsi, ma ad accelerare con le procedure d’ingresso per l’Ucraina e ad accrescere ancora il suo impegno, su tutti fronti”. 
 

"Il piano Trump per il medio oriente? Si rischia l'intifada globale"
 

L’altra grande trattativa di questi giorni è quella che arriva dal medio oriente, una tregua ancora fragile tra Israele e Hamas che deve essere implementata. “Con l’iniziativa di Trump, anche in questo, sullo sfondo”. Che idea si è fatto? “C’è un punto che ritengo delicatissimo”, risponde Minniti. E non senza preoccupazione. “Una cosa è un piano per la ricostruzione di Gaza, altro sarebbe ricollocare il popolo palestinese. Sono due scenari molto diversi. Nel primo caso si tratterebbe di una iniziativa importantissima, fondamentale, soprattutto se portata avanti dagli Stati Uniti di concerto con i paesi arabi moderati, garantendo la sicurezza di Israele”. Come? “Attraverso una forza militare internazionale, con il fine ultimo di cacciare militarmente Hamas da Gaza. Un progetto di questo genere può essere la chiave di volta per passare dalla tregua a una pace vera e propria”. 

E invece, almeno in questa prima fase, l’idea di Trump è sembrata di altro tipo: il presidente americano ha parlato di spostare i palestinesi in altri stati, più o meno vicini. “Questa seconda ipotesi potrebbe rivelarsi un errore drammatico. I paesi arabi moderati, che su Trump non hanno pregiudizi e lo hanno sostenuto durante le prima presidenza, hanno già espresso una netta contrarietà in quanto  consapevoli che l’evacuazione permanente di Gaza può portare a effetti sconvolgenti”. Due in particolare nell’analisi di Minniti. “La prima conseguenza è un collasso dei paesi più vicini: Giordania ed Egitto, che tra l’altro stanno già compiendo un grandissimo sforzo umanitario nel sostenere Gaza. L’Egitto inoltre sta ospitando oltre 300 mila profughi della guerra civile in Sudan, di cui spesso ci dimentichiamo. Il collasso di questi due stati può comportare una rottura ancora più grande, senza precedenti, dell’equilibrio mediorientale. E la fine di ogni forma di sicurezza per Israele”.

La seconda conseguenza trascende il contesto mediorientale e può avere allo stesso modo risultati devastanti. “E’ un aspetto per certi versi simbolico, ma i cui risvolti sono concreti. Evacuare tutti i palestinesi vuol dire scrivere la parola fine alla prospettiva dei ‘due popoli, due stati’. Un sogno che ha accompagnato intere generazioni. E non possiamo dimenticare che Hamas non ha mai accettato questo tipo di percorso. La fine della speranza potrebbe determinare una intifada globale. Una drammatica esplosione di rabbia e radicalismo che può infiammare l’intero Mediterraneo e arrivare in profondità in tutto l’occidente. E’ l’eterogenesi dei fini: compiere un atto con l’obiettivo di raggiungere un risultato e invece ottenerne un altro, che è esattamente l’opposto. Questa riflessione la dobbiamo a Wilhelm Wundt che è stato non a caso, oltre che filosofo, tra i primi studiosi di psicologia. Purtroppo – conclude Minniti – la storia dell’umanità è contrassegnata da clamorose eterogenesi dei fini”. 

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