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Marina Berlusconi (foto Ansa)
l'intervista
Il pendolo di Marina Berlusconi
“Trump? Non va demonizzato, ma le sue mosse assomigliano ad atti di bullismo. La fine della guerra non coincida con la resa di Kyiv. L’Italia liberale? Con meno burocrazia, meno tasse e più liberalizzazioni. I matrimoni gay? A favore”. Intervista a tutto campo con il capo di Fininvest
Il pendolo, in politica, bisogna immaginarselo: è quel movimento istantaneo che sposta improvvisamente l’estremismo da una parte all’altra degli schieramenti, è l’immagine perfetta per provare a ragionare su un nuovo mondo che improvvisamente si è aperto intorno a noi. Il pendolo, in politica, bisogna immaginarselo, è quel movimento istantaneo che spinge i protagonisti della vita pubblica a combattere l’estremismo con altri eccessi di estremismo, è l’immagine perfetta con cui fotografare il disorientamento di chi, ragionando sul presente, cerca di trovare non una terzia via ma semplicemente una via di mezzo. Marina Berlusconi, primogenita di Silvio Berlusconi, presidente di Fininvest e del gruppo Arnoldo Mondadori, è qui di fronte a noi, sul divano soffice del suo appartamento di Milano, e accetta di ragionare a lungo con il Foglio sull’Italia, sull’Europa, sull’Ucraina, sull’America di Trump. E non si sottrae davvero a nessuna domanda. Lo fa senza voler fare intromissioni nel perimetro della politica, senza voler dettare agende, senza voler lanciare moniti, ma con lo spirito di chi si sente in dovere, ogni tanto, di dare un senso al caos, di mettere ordine e di provare a ragionare e a far ragionare. Il pendolo, si diceva.
“Faccio l’editore – dice Marina Berlusconi – e il problema della divisione dell’Occidente mi colpisce soprattutto dal punto di vista culturale. Perché è vero che le grandi autocrazie globali – la Russia, la Cina, l’Iran – sono una minaccia politico-strategica ed economica. Ma quelle dittature oggi fanno fronte comune anche in un campo diverso, ideale, ponendosi apertamente come un modello alternativo al nostro. A questa minaccia esterna si aggiunge, poi, quella interna, visto che anche una parte di opinione pubblica occidentale negli ultimi anni ha cominciato ad allontanarsi dai valori della democrazia e della tolleranza. E a mettere in dubbio che l’Occidente, pur con tutti i suoi difetti, sia il migliore dei mondi possibili. Con il passare del tempo, la memoria delle sanguinarie dittature del Novecento sta sbiadendo e la ‘sindrome del pendolo’ diventa sempre più contagiosa”. In giro per il mondo, oggi, dove è possibile osservare in purezza questa sindrome? “Il problema mi sembra evidente. Sembra che il modo di pensare occidentale sia ormai condannato a oscillare come un pendolo tra convinzioni sempre più estreme. Abbiamo vissuto una lunga stagione di esagerazioni progressiste, oggi veniamo trascinati verso eccessi altrettanto radicali in senso opposto. Una dinamica preoccupante, nella quale anche i conservatori tradizionali vengono travolti dalle posizioni più reazionarie. Il pendolo si sta spostando dalle utopie dell’ambientalismo ideologico all’assurda miopia del negazionismo climatico; dai pericoli dell’apertura indiscriminata delle frontiere all’innalzamento di muri che sono altrettanto inaccettabili. E se parliamo dei diritti civili, siamo passati dai paradossi della cultura ‘woke’, che pretendeva diritti assoluti dimenticando totalmente doveri e responsabilità, al drastico ridimensionamento di tutte le politiche d’inclusione e al culto della verità biologica. Così, però, rischiano di andare perdute alcune conquiste irrinunciabili sul fronte dei diritti e delle libertà di scelta individuali. Perché quella dei diritti non è una questione né di destra né di sinistra. E’ una questione di civiltà. Devo dire che ho sempre trovato prive di senso le pretese dei seguaci della ‘cancel culture’, che volevano riscrivere la storia, abbattere statue e cambiare nome a strade ed edifici: ora abbiamo un Donald Trump che, proprio per rivendicare l’identità degli Stati Uniti rispetto alle proposte di quegli invasati, s’è messo in testa di ribattezzare il Golfo del Messico in Golfo d’America. E va anche oltre, ipotizzando l’annessione del Canada o della Groenlandia. Sembrerebbe uno scherzo, ma purtroppo non lo è. Basta guardare all’immagine che abbiamo visto sui giornali di tutto il mondo, che ritrae file di migranti in catene espulsi dagli Stati Uniti. Una fotografia orribile, inquietante, che è stata trasformata dal nuovo presidente in un simbolo di ‘missione compiuta’, una orgogliosa dimostrazione di come sta mantenendo le sue promesse. Stiamo assistendo a una inaccettabile esibizione, addirittura a una istituzionalizzazione della crudeltà, che viene peraltro emulata, con una buona dose di ipocrisia e di contraddittorietà, anche da grandi vestali del multiculturalismo come i laburisti inglesi”.
Il pendolo più pericoloso, almeno per quanto ci riguarda, è quello che Trump ha scelto di spostare con violenza, tentando di offrire risposte estremiste a problemi spesso generati da un estremismo opposto. “Non voglio accodarmi alla fila di coloro che demonizzano Trump a priori: stiamo parlando del presidente della più grande democrazia al mondo, legittimamente eletto dal suo popolo, ed è ancora troppo presto per dare giudizi definitivi. Indubbiamente le sue prime mosse generano più di una preoccupazione, ma va anche detto che il forte pragmatismo di certe iniziative potrebbe portare a risultati rilevanti come la fine della guerra in Ucraina. Ma se fosse una pace fatta sulla pelle di Kyiv e dell’Europa non credo si potrebbe considerare un bene. Mi auguro davvero, in ogni caso, che il futuro possa dimostrare come le preoccupazioni iniziali fossero immotivate. Per il momento non si può ignorare che molti dei primi interventi di Trump hanno sì portato qualche vantaggio immediato agli Stati Uniti, ma alla lunga la sua strategia di mettere gli altri paesi continuamente sotto pressione si trasformerà in una forza centrifuga sempre più violenta, capace di separare e dividere la comunità occidentale. Spero davvero che il paese che è sempre stato il principale garante dell’Occidente non abbia ora un presidente che ambisce a diventare lui il ‘rottamatore’ dell’Occidente stesso, demolendo così tutto quello che l’America è stata negli ultimi ottant’anni: molte delle sue prime mosse, purtroppo, assomigliano ad atti di bullismo politico, in cui gli Stati Uniti si pongono come il solo e incontrastato numero uno, mentre gli alleati vengono trattati come paesi-satellite”.
Forse è qualcosa più di una semplice impressione. “Personalmente mi rifiuto di credere che l’America possa arrivare a rinnegare il suo ruolo guida di paese più potente del mondo, che ha sempre esercitato in nome del multilateralismo e del sostegno tra alleati. Il fatto, però, che se ne possa anche solo dubitare è di per sé stesso inquietante. Del resto leggiamo quotidianamente notizie su paesi storicamente legati agli Stati Uniti che si ritrovano di colpo a dover scegliere: o si cede ai diktat trumpiani o si reagisce a propria volta con altri dazi. Da convinta sostenitrice del libero mercato, non posso che avere grosse perplessità su tutto ciò che sono i dazi e, più in generale, il protezionismo. E comunque oggi esistono anche modelli ultraliberisti come quello del presidente argentino Javier Milei, che i dazi invece li toglie e che, almeno per ora, sta riuscendo a risanare i conti di un paese da decenni in balia dei default. Tornando a Trump, voglio sforzarmi di vedere il bicchiere mezzo pieno: qualcuna delle sue azioni radicali potrebbe avere alla fine anche effetti positivi, come quello ad esempio di spingere finalmente l’Europa a superare le divisioni e a unire le forze”.
E’ spaventata o rassicurata dalla presenza, attorno a Trump, dei signori delle Big Tech? “Si sono tutti scandalizzati per la sfilata dei signori delle Big Tech a Washington, in prima fila all’insediamento di Trump, ma devo dire che la loro forza incontrastata è una anomalia che faceva già paura prima. Nella storia dell’umanità non si era mai assistito a una simile concentrazione di potere, ricchezza e interessi nelle mani di pochi soggetti. Servono limiti e regole. Va riconosciuto che l’Europa e anche l’Italia hanno cominciato a muoversi su questo fronte: mi auguro davvero che ora non si lascino condizionare dalla marcia indietro di Trump, che si è subito ritirato dalla global minimum tax a tutela di Musk & Company. C’è un problema di concorrenza sleale grande come una casa, ma sarebbe molto riduttivo pensare che la minaccia sia tutta qui. Questi colossi del digitale, infatti, sono riusciti a imporre nella nostra vita di tutti i giorni la dittatura dell’algoritmo, che porta alla massima semplificazione delle opinioni, alla polemica più estrema e alle tesi più radicali. Il tutto con l’obiettivo di generare traffico online, e quindi più incassi, e purtroppo oggi anche di influenzare il modo di pensare della gente. E’ un meccanismo infernale, che inevitabilmente ha contagiato in profondità anche la politica”.
Dire Trump, oggi, significa dire molte cose insieme. Ma oggi forse significa dire soprattutto una cosa: Ucraina. E’ preoccupata Marina Berlusconi della possibilità che buona parte dell’Ucraina possa essere data in pasto a Putin e che la nuova Yalta possa vedere trionfare la Russia? “La mia opinione su questa guerra è sempre stata una, e non è mai cambiata: la Russia ha invaso brutalmente un paese indipendente e libero. Per porre fine a questo terribile conflitto, sarà inevitabile un compromesso, ma sono assolutamente convinta che la fine della guerra non debba coincidere con la resa di Kyiv e la vittoria di Mosca. All’Ucraina spettano le garanzie necessarie per la sua sicurezza e la sua indipendenza. E’ un passaggio molto delicato, fondamentale anche per il nostro futuro: lasciar vincere la Russia creerebbe un precedente gravissimo, che darebbe ai regimi autocratici una sorta di via libera a occupare con la forza altri paesi. Putin, invadendo l’Ucraina, ha dichiarato definitivamente guerra ai valori occidentali. E l’Occidente ha risposto subito alla sfida, mostrandosi unito. Oggi, però, non sembra esserlo più. E se l’Europa verrà tagliata fuori dalla soluzione che sembra si stia profilando dovrà anche fare una seria autocritica”.
Marina Berlusconi, rispetto al rapporto d’amicizia del papà con Vladimir Putin, ha molti aneddoti, molte storie da raccontare, molte discussioni, anche vivaci, che ricorda ancora oggi, con orgoglio e affetto. E viene dunque naturale chiedersi, spulciando nel catalogo della casa editrice dedicata a Silvio Berlusconi, la Silvio Berlusconi Editore, che cosa ci faccia il saggio di uno dei principali studiosi anti-putiniani. Si tratta di “La fine del regime” di Alexander Baunov, prima edizione internazionale del saggio che in Russia è divenuto una bandiera contro la dittatura, e sarà in uscita per la Silvio Berlusconi Editore il prossimo 25 febbraio. “Lei, direttore, ipotizza un contrappasso, ma non è così. Mio padre ha sempre fatto di tutto per avvicinare la Russia putiniana all’Occidente. E nell’ultimo periodo della sua vita diceva che Putin lo aveva deluso, che non era più l’uomo che aveva conosciuto. Anche per questo sono convinta che oggi gli farebbe piacere sapere che questo libro esce proprio per la Silvio Berlusconi Editore, che, come Gruppo Mondadori, abbiamo lanciato l’anno scorso con la missione di difendere i valori occidentali, a partire da quelli della libertà e della democrazia. La nostra casa editrice vuole dare voce proprio a questi valori, pubblicando tanti modi diversi di interpretarli e di raccontarli, anche quelli su cui possiamo non essere d’accordo, e mantenendosi sempre distante da qualsiasi forma di militanza politica”.
Prima di arrivare a parlare d’Italia, d’Europa, di diritti, di immigrazione, di banche, di destre estreme, con qualche sorpresa, chiediamo qualche anticipazione sui libri della Silvio Berlusconi Editore, e la figlia del Cav. ce ne racconta alcune. “Quest’anno sono in programma molte novità. Ad aprile abbiamo Deirdre N. McCloskey con la sua ‘Trilogia della borghesia’, una storia del capitalismo e dei valori che l’hanno plasmato, alimentando il progresso degli ultimi tre secoli; in estate, invece, usciremo con ‘La repubblica tecnologica’ di Alexander C. Karp, amministratore delegato di un’importante azienda della Silicon Valley, che presenta un vero e proprio manifesto a favore dell’alleanza tra tecnologia e governi per il futuro dell’Occidente. Per la prima volta, poi, pubblicheremo per la Silvio Berlusconi Editore anche un romanzo, ‘Daikon’, di Samuel Hawley: una vicenda ambientata nel 1945, in cui una bomba atomica americana cade nelle mani dei giapponesi e cambia il corso della storia. Ma avremo anche autori italiani: per la seconda metà dell’anno, infatti, sono confermati ‘I giorni contati’ di Ernesto Galli della Loggia, un intervento sulla crisi dell’Occidente e sui valori della nostra civiltà, e ‘I ragazzi di carta velina’ di Walter Siti, sulla fragilità delle generazioni più giovani. E avremo anche altre novità, tra cui ‘Egemonia culturale’, un saggio ironico e scanzonato di Andrea Minuz su un concetto spesso abusato nel nostro dibattito pubblico. Intanto, cominciamo con Baunov, un intellettuale russo considerato ‘agente straniero’ nel suo Paese e costretto a vivere in esilio. Racconta la fine degli ultimi tre regimi dell’Europa occidentale: quello di Francisco Franco in Spagna, di António Salazar in Portogallo e dei colonnelli in Grecia. E prevede la fine anche di Putin: scrive che le persone gradualmente ricominceranno ad accettare come un dato di fatto che riguardo a questioni diverse si possano avere opinioni diverse. E’ uno scenario che non sembra certo imminente, ma non esistono governi che durano in eterno e prima o poi anche a Mosca ci sarà un avvicendamento al vertice. Io però non darei per scontato che, dopo Putin, si imporrà un modello democratico. Un grande autore vissuto ai tempi dell’Unione Sovietica come Vasilij Grossman scriveva che la Russia è ‘una schiava millenaria’: l’anima del suo popolo, purtroppo, non conosce la libertà e la democrazia, che invece sono i valori occidentali per eccellenza”.
A proposito di politica e a proposito di anime. E’ possibile immaginare una destra che non metta al centro della sua agenda la necessità di rendere l’Europa più sovrana e meno sovranista? “Credo che oggi tutti dovremmo aver chiaro che l’Europa non è un’opzione, ma una scelta obbligata, senza alternative. I 27 Stati europei, presi singolarmente, sono poco più di un’espressione geografica. Eppure oggi l’Unione Europea appare in seria difficoltà: o Bruxelles continua a barcamenarsi tra i soliti compromessi al ribasso, oppure riesce finalmente a superare gli egoismi e a far funzionare davvero l’integrazione. L’Europa deve svegliarsi. Troppo spesso l’appartenenza all’Unione è ancora vissuta come una cessione di sovranità, come se più Europa significasse meno Italia, meno Germania, meno Francia… Basta vedere quei movimenti che da una parte proclamano di voler rendere grande l’Europa e dall’altra predicano il motto di meno Europa e più sovranità. Ma vale esattamente il contrario, perché la vera sovranità è saper rispondere al meglio ai bisogni dei cittadini e non può esserci sovranità nella solitudine, oggi meno che mai. Penso alla difesa comune, alla politica estera comune, al debito comune, al mercato unico dei capitali: tutti casi in cui l’unione fa la forza. Però mi permetto di dire che non basta un cambio di mentalità dei paesi, devono cambiare, e tanto, anche l’Europa e le sue istituzioni. Penso ad esempio al principio di unanimità nelle decisioni, che ci blocca nelle sabbie ‘immobili’ degli ostruzionismi e dei veti. All’Europa servirebbero meno regole e più efficaci. E molta, molta meno burocrazia. Mi lasci dire, per il mestiere che faccio, che la necessità di ridurre la burocrazia e di aumentare l’integrazione è una priorità anche per le imprese. L’Europa dovrebbe facilitare e promuovere l’iniziativa privata e certamente non ostacolare la crescita sovranazionale delle sue imprese. Servono più libertà e più concorrenza. Questo vale per l’Europa come anche per l’Italia: più libertà e più concorrenza significano imprese più forti. E anche consumatori più soddisfatti: si parla tanto di salari bassi e di scarso potere d’acquisto, ma da sempre è proprio la concorrenza il meccanismo naturale per creare il giusto equilibrio nei prezzi”.
A breve, domenica prossima, si voterà in Germania, dove la destra estrema dell’AfD potrebbe diventare il secondo partito. Che differenza vede tra la destra estrema tedesca e quella italiana? “In Europa, in questo momento, ci sono tante destre. Quella italiana – e credo che tutti dovrebbero dargliene atto – riesce a mantenere una posizione di equilibrio e piena adesione ai valori democratici. Mi lasci dire che chi si è inventato il nostro centrodestra trent’anni fa ci aveva visto lungo… Oggi viviamo una fase storica molto difficile e il ruolo di Giorgia Meloni è decisamente complesso: sono convinta che meriti stima e rispetto per quello che sta facendo. Purtroppo la situazione appare molto diversa in altri paesi, dove i movimenti più radicali si stanno rafforzando: in alcuni casi addirittura dettano l’agenda alle forze più moderate”. Marina Berlusconi si considera antifascista? “Sono assolutamente antifascista, così come sono assolutamente anticomunista. Non vedo come possa non esserlo chiunque dia il giusto valore alla storia. Tutte le polemiche sulla necessità di dirsi antifascisti mi paiono, però, forzature strumentali. Facciamo l’esempio più banale: chiedere una pubblica professione di antifascismo al presentatore di Sanremo è una emerita sciocchezza, che svilisce un termine meritevole di ben altro rispetto. Contro gli estremismi e i nemici della libertà non servono autocertificazioni di conformità: servono valori democratici, chiarezza delle idee, consapevolezza. Servono leader politici che guidino la società, invece che lasciarsi guidare solo dalla ricerca del facile consenso, assecondando – e spesso fomentando – la rabbia e le paure della gente. Oggi ci troviamo a dover fare i conti con problemi giganteschi, che mi pare si possano affrontare in tre modi diversi: possiamo ignorarli, come ha fatto il progressismo più miope, lasciandoli così crescere fino a diventare ingestibili; possiamo inseguire soluzioni semplicistiche ed estreme, che nella realtà però non risolvono assolutamente nulla, anzi si rivelano davvero pericolose; oppure possiamo rimboccarci le maniche, sapendo che i tempi saranno lunghi e le difficoltà enormi, ma che, pezzo dopo pezzo, mediazione dopo mediazione, troveremo una qualche via d’uscita. Con molto, moltissimo buon senso: il buon senso di preservare e proteggere le conquiste di libertà e di civiltà che fanno di noi occidentali quello che siamo, tenendoci alla larga dal grande errore di rinnegare noi stessi e le qualità uniche del nostro mondo, nella speranza che tornino di moda valori come l’equilibrio, la moderazione, la totale allergia agli eccessi. Valori che uniscono anziché disgregare: oggi, purtroppo, sono diventati merce rara e se ne sente davvero la mancanza”.
Marina fa una pausa e tira fuori da una cartellina un foglio. “Le leggo un passaggio di una intervista che ho ritrovato di recente. Sono le parole di un signore che nel 1985 immaginava la creazione di un network televisivo europeo: ‘Una televisione per l’Europa, per tutti i popoli dell’Europa, un unico programma, trasmesso in quattro lingue, capace di raggiungere contemporaneamente una popolazione di oltre 250 milioni di persone, consentendo loro di riconoscersi in comuni radici di civiltà, di cultura, di gusto. Per ora è una grande avventura, un grande rischio. Un’utopia affascinante cui è difficile sottrarsi. Ma che c’è di più meraviglioso del realizzare un’utopia?’. Quel signore, lo dico non per inciso – e qui Marina fa un sorriso orgoglioso – era mio padre, Silvio Berlusconi. Sono passati quarant’anni, oggi le cose sono molto diverse da allora e viviamo un’epoca molto più violenta e piena di incertezze. Certamente, però, sarebbe meglio per tutti se nel linguaggio e nelle aspirazioni di chi nel nostro mondo occidentale ha responsabilità di governo tornassero parole come radici comuni, cultura comune, progetti comuni al posto di dazi, muri e, più in generale, delle provocazioni e delle minacce, se la politica ritrovasse pienamente il rispetto di sé stessa. Un’utopia? Forse sì, ma personalmente non voglio rinunciare a sperarci”.
Possiamo dire che sull’immigrazione la politica matura dovrebbe puntare, anche in Europa, a seguire meno l’agenda della crudeltà e più quella dell’integrazione? “Quello delle migrazioni è un problema epocale che ci porteremo dietro per chissà quanto tempo, e che si potrà risolvere – se mai si potrà risolvere – solo con l’integrazione e con il supporto allo sviluppo dei paesi di provenienza. Ma occorre anche molta ragionevolezza. E’ chiaro che non possiamo impedire a milioni di disperati d’inseguire il sogno di una vita migliore, ma è altrettanto chiaro che questa vita migliore non possiamo certo offrirla a tutti”.
Con Marina Berlusconi ci spostiamo dall’Europa, ci allontaniamo dall’America, ci discostiamo dall’Ucraina e arriviamo a passare gli ultimi minuti della nostra lunga conversazione su alcuni temi che riguardano l’Italia. Politica, ma non solo. Economia, ma non solo. Banche, ma non solo. Chiediamo. L’Italia ha una sua stabilità, ed è innegabile, ma che cosa bisogna fare per evitare che la prudenza diventi immobilismo? “Anche se non mi pare che al momento ci sia questo problema, non avrei ricette originali e comunque non spetterebbe a me darne. Dal mio punto di vista, l’unica ricetta è sempre quella liberale: meno burocrazia, meno tasse e più liberalizzazioni. Vale per l’Italia, come vale per l’Europa. Non dimentichiamo, poi, che il nostro paese ha a disposizione i miliardi del Pnrr. E’ ovvio che spenderli bene è la priorità delle priorità”.
E’ auspicabile che un paese che vuole sostenere l’impresa, e che voglia crescere, utilizzi i pochi soldi che ha per abbassare le tasse e utilizzi le energie che ha per scommettere sulla concorrenza? “Certamente sì. Non posso che augurarmi si mettano in atto politiche il più possibile espansive, capaci di favorire occupazione e crescita. Purtroppo però non possiamo aspettarci miracoli, visto che i mezzi scarseggiano e sappiamo tutti che il rapporto debito/pil deve calare: ce lo chiede l’Europa ed è giusto rispettarlo, anche se solo a certe condizioni. Perché se a causa di un eccesso di rigore la diminuzione del numeratore si porta dietro anche quella del denominatore, è evidente che torniamo al punto di partenza. E sarebbe un gioco dell’oca deleterio”.
Dal gioco dell’oca potremmo passare velocemente a un altro gioco più delicato: il risiko. Siamo a Milano, siamo nel cuore della finanza, siamo non lontani dal santuario sotto assedio di Mediobanca. Uno degli azionisti di Mediobanca, come è noto, si chiama Mediolanum, che ha il 3,49 per cento di Piazzetta Cuccia. Fininvest, di cui Marina Berlusconi è presidente, è secondo socio con il trenta per cento proprio di Mediolanum. E la nostra domanda, sul tema, è semplice: qual è la vostra posizione rispetto all’offerta pubblica di scambio lanciata da Mps tre settimane fa? “In questo momento – dice Marina – siamo solo spettatori. Non ci sono ancora tutti gli elementi sul tavolo per fare una riflessione compiuta e comunque mi pare molto corretto quello che ha detto Massimo Doris: ad esprimersi saranno i CdA. Mi lasci dire che, su questa partita come su tutte le altre – e in questo periodo ce ne sono davvero tante – qualsiasi cosa sceglierà il mercato sarà quella giusta”.
Il presidente di Fininvest osserva con discrezione l’orologio, il nostro tempo è finito. Ci resta lo spazio per una domanda, che proviamo a dividere in tre parti innocenti. Presidente, sul tema dei diritti, ci piacerebbe sapere qual è il suo pensiero su tre grandi temi: la cittadinanza per chi nasce in Italia, il matrimonio gay, il suicidio assistito. “Sono favorevole ai matrimoni gay. Guardi, se c’è qualcuno che dà valore alla famiglia, beh quella sono io. Avere una famiglia unita e solida è da sempre l’obiettivo principale della mia vita. Proprio per questo, sono convinta che la famiglia non possa essere ingabbiata in schemi e modelli standard, ma ognuno debba avere il diritto di creare la propria insieme alla persona che ama. Altro discorso è quello della maternità surrogata, su cui mi trovo contraria: qualcosa di intimo e profondo come la maternità non può trasformarsi in una mercificazione del corpo femminile. Per quanto riguarda invece il suicidio assistito, penso che chi è afflitto da una malattia incurabile e dolorosa debba avere il diritto di porre fine alla propria esistenza con dignità, ovviamente sulla base di una decisione presa in totale libertà e consapevolezza. Ho tenuto per ultimo l’argomento della cittadinanza per chi nasce in Italia perché su questo tema penso serva molta gradualità: posizioni troppo drastiche e ideologiche non fanno che generare eccessi in senso opposto. Servono piccoli passi in avanti, con l’obiettivo di un’integrazione ragionevole, senza pretendere di cambiare il mondo nello spazio di una notte, altrimenti la sindrome del pendolo colpirebbe ancora”.
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