Elly Schlein (Ansa)

Le reazioni della politica italiana

Meloni, Schlein e le fosche conseguenze del trumpismo

Giuliano Ferrara

Il radicalismo della svolta nazionale-illiberale di Trump lascia pochi spazi agibili per la premier. Ma anche per la segretaria del Pd non sarà affatto facile praticare la reazione antitrumpiana. Tempi interessanti, purtroppo, ma uno spazio c’è

Tra le piccole virtù del giornalismo ci sono le piccole domande. E ora con Trump che sfigura Zelensky, compagno d’arme e di speranze della presidente del Consiglio per tre lunghi anni di guerra, e lo fa dopo aver stracciato malamente Biden, suo omologo rispettato e con lei paterno, non solo a pacche sulle spalle, e con Bruxelles di lato, e con Macron e gli omologhi tedesco e spagnolo e inglese in brache di tela, e ora che farà Giorgia Meloni? Oppure: ora che la parola pace, così bella, viene sfregiata dalla demagogia dell’ingiustizia e dell’affarismo bieco, ora che la bandiera bianca dell’eurodeputato Marco Tarquinio (Pd) è intimata perentoriamente da un alleato diventato nemico, ora che il campo largo putiniano lo fanno Salvini e Conte, ora che farà Elly Schlein? Prendi la questione ucraina e trasportala nel paese in cui vivi, nel sistema politico che ti governa, e vediamo che cosa se ne possa mai pensare. Ovviamente per questione ucraina si intende prima di tutto il destino di un paese schiacciato dalla faccia feroce della storia, invaso da un’autocrazia revisionista dell’est post sovietico e ora dal revisionismo postdemocratico degli americani, da ovest, dove il boia della giustizia per l’Ucraina è stato eletto e usa il suo immenso potere per rinsaldare la cupola di piombo che già opprime Kiyv, mettendo il capo dei resistenti nella condizione di dover scegliere tra una difesa disperante e la bandiera bianca di vaticana memoria e di trumpiana attualità. Non è moralismo, non è rappresentazione, non è immagine falsata dal cartoonish, il fumettistico convivere di farsa e tragedia nell’orientamento, chiamiamolo così, della nuova Casa Bianca; è aritmetica elementare e materiale dei fatti. Oltre l’Ucraina c’è un equilibrio mondiale di quasi otto decenni, due generazioni bibliche, in discussione. Un equilibrio costruito su un incontro conflittuale e non innocente, nessuno è innocente, di culture, di modi di vita, di strutture della società e dell’economia, della sicurezza, quel che de Gaulle chiamerebbe una certa idea di occidente. 


Oggi tutto sembra spazzato via, lasciamo per un momento stare perché e per responsabilità di chi o di che cosa, e trionfa in apparenza non già l’imperialismo democratico unilaterale dei neoconservatori e delle presidenze appunto imperiali, ma una sua caricatura illiberale fondata sull’incontro o collusione tra sistemi fino a ieri incompatibili o alternativi, nati dall’intero secolo scorso, da due guerre mondiali, dalla parabola del fascismo e del comunismo e dall’affermazione tra atroci tormenti delle democrazie occidentali moderne. Che cosa tutto questo significhi per la politica italiana, intesa non come contesa microscopica su scemenze di dettaglio e ideologismi ma come un insieme, come un’architettura che ha passato i suoi esami e ha raggiunto la maturità dell’alternanza di forze diverse alla guida del governo, evitando esiti plebiscitari, richiami frustrati e rancorosi alla rivolta populista, sacrificando quel pezzo di vita pubblica che furono i vecchi partiti e sindacati ma ricostruendo una possibile stabilità nel segno della competizione possibile tra centrodestra dei nuovi partiti e centrosinistra (mal definiti ma vitali a loro modo), bè, non è chiaro affatto. 

Per Meloni mediare con gli energumeni di Washington, a tradimento consumato, non è facile, sebbene in certo modo sia considerato indispensabile comunque da un establishment europeo alla canna del gas, e sopra tutto non è attività esclusiva, salvi i buoni rapporti personali e le iniziative di successo già intraprese in altri contesti, viso lo spazio oggettivo per un governo europeo di destra di fronte all’ondata reazionaria negli Stati Uniti. Il radicalismo della svolta nazionale-illiberale di Trump lascia pochi spazi agibili. La disponibilità al servilismo di chi intenda rivaleggiare con Meloni dentro la maggioranza inseguendo la deriva putinista, anche nei suoi aspetti caricaturali, ma non per questo meno seri e pericolosi, è un ulteriore ostacolo alla libertà di movimento della premier. Lei è un donna che ha avuto la ventura di nascere in un mondo postumo rispetto al fascismo, in un contesto in cui la tensione fra nostalgie, frustrazioni, automatismi ideologici, volontà di riscatto poteva metterla su un binario sbagliato invece che su quello, da lei percorso con una certa grinta, di un forte riconoscimento, senza abiure culturali insincere, di valori e prassi occidentali, ciò che è avvenuto, e che è la chiave del suo successo mainstream come primo ministro e capo di un partito novissimo. Insieme con il wokismo e mille altre stupidaggini liberal è stato però travolto proprio il sostrato cosiddetto mainstream di un assetto di cultura e strategia e sensibilità che ha avuto nell’asse tra America e Europa occidentale la sua culla e il suo paradigma di crescita nei decenni. Raddoppiare il trumpismo di queste settimane che stanno cambiando il mondo sarebbe un rinnegamento demolitorio di tutta l’esperienza conservatrice e democratica della guida meloniana del centro destra e del paese o nazione. Per barcamenarsi, la via più facile, forse c’è uno spazio ristretto che si chiama Merz o Germania, ma bisogna vedere anche il risultato delle elezioni a Berlino, non del tutto scontato. E alle questioni di politica estera e di sicurezza, che ora primeggiano, si aggiungono quelle daziarie, cioè lo scombussolamento di quelle relazioni economiche tra aree competitive ridotte a arene di un deal e di un business straccione (i dazi reciproci sono un ritorno dal capitalismo globalizzato al baratto). 

Anche per Elly Schlein non sarà facile praticare la reazione antitrumpiana senza farsi bullizzare dai pacifisti stile Monaco 1938. E il ritorno a una vera contesa politica, non impaniata nella demagogia elettorale permanente, su una prospettiva di emulazione con un fronte conservatore invece che con una banda di scombiccherati rivoltosi che lavorano contro le istituzioni della democrazia mondiale, si presenta per lo meno problematico. Situazione interessante, purtroppo, per l’Italia dopo il comeback della grande impostura americana, e in queste forme, con questo tono, con questo linguaggio bieco. 

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.