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L'intervista
Quando c'era Draghi. Pranzo con Roberto Garofoli, ex sottosegretario del governo "irripetibile"
"La mia vita in caserma durante la stagione Draghi, le sue telefonate, le fragilità italiane nel mio libro con Bernardo Giorgio Mattarella. I doveri di un magistrato". A tavola con "il soprasegretario", ex capo di gabinetto del Mef
Si ricorda come è iniziata? “Ricordo come è finita”. Era il pomeriggio del 21 luglio del 2022, quel giorno Mario Draghi si dimette. “Gli ero accanto, sottosegretario del presidente del consiglio”. Roberto Garofoli, magistrato, ex capo di gabinetto, ex segretario generale, e ancora e ancora… “Ricordo i saluti, i ringraziamenti, ricordo la cena, con il presidente, l’immagine, nitida. Ce l’ho ancora in testa, incancellabile come il pomeriggio della morte di mio padre. E’ morto nuotando, a mare, in acqua”. Come si chiamava? “Ing. Girolamo Garofoli, Mino”.
Cosa ricorda di quella cena? “Ricordo che Draghi si alzò per andare a pagare. Disse che eravamo suoi ‘ospiti’. Ricordo la sala che rumoreggiava. All’improvviso, il silenzio. Tutti abbiamo iniziato a guardarlo, a guardare un punto. Si sentirono allora solo i suoi passi, e cominciò, cominciò. Uno, e poi uno, “grazie”, e poi, ancora, “grazie”, e poi, di nuovo “grazie”, e poi fu un battito di mani, sempre più forte, e da fuori si aggiunsero ancora altri”. Era amato? “Non so cosa si intende. So però che quel governo, quel tempo, è stata un’esperienza irripetibile. E’ stata ‘la cosa’. Nella vita di ciascuno c’è sempre un momento, un intervallo unico. Non ti accorgi che stai per vivere qualcosa che non tornerà”. Montanelli scriveva “mai più mi sentirò, come mi sentii allora, parte di qualcosa, compagno di qualcuno”. Era forse questo? “Ci sentivamo parte di un governo che doveva trascinare fuori l’Italia dal Covid, era l’Italia che doveva ripartire. Ho abitato per più di un anno in caserma, in una foresteria messa a disposizione dei ministri e dei sottosegretari”. Cercava la clausura? “E’ stata una mia decisione. Non volevo avere distrazioni. Non sono stato l’unico a fare quella scelta”. Chi altro? “Abitavano in quella caserma il ministro dell’Istruzione, Bianchi e la ministra dell’Università e della Ricerca, Messa”.
Ci accorgiamo entrambi di non aver ordinato nulla da mangiare e il libro, che Roberto Garofoli ha scritto con Bernardo Giorgio Mattarella, giurista, ordinario di diritto amministrativo, figlio del presidente Sergio Mattarella, “Governare le fragilità” (Mondadori) è sul tavolo insieme ai menù di questo ristorante, qui, a Roma, a pochi metri da Campo dei Fiori, tra i banchi di frutta, e il “suo” Consiglio di Stato, qui dove Garofoli è rientrato dopo l’esperienza da sottosegretario. Arriva alle 14.05, di fronte al ristorante, con uno zainetto, ma alle 14.02 chiama per avvisare che “ci sono quasi”. Poco dopo, a tavola, alla domanda “il governo Draghi aveva una chat come quella di FdI?”, Garofoli risponde “che non era il nostro metodo. Draghi chiamava personalmente”. Quante chiamate riceveva da Draghi? “Tante e bisognava avere soluzioni. Non voleva che alle sue domande si rispondesse con altre domande. Dovevamo correre. Non è stato facile. Vivevo con l’ansia ma era l’ansia che ti tiene vigile e sveglio”. La descrive come uno stato speciale, quella febbre che ti fa cantare quando lavori, parlare da solo per strada quando passeggi, l’ansia di far bene le cose e poi sorridere senza motivo, l’ansia che ti prende quando il far bene le cose si concilia con la famiglia, una compagna o un compagno nuovo, quando si ricomincia.
Ci invitano a sedere mentre al tavolo vicino una coppia di anziani pranza tenendosi per mano. Capisce da subito che ho letto il libro come lo possono leggere i giornalisti che scrivono ogni giorno, giorno per giorno, e che cerco la sua vita, il suo passato, come Garofoli e Mattarella hanno cercato i documenti, i numeri per scrivere il primo capitolo “La sicurezza nazionale. Chi e come tutela gli interessi dell’Italia nel mondo?”. Il nome di sua madre? “Maria, professoressa di latino e poi preside”. Casa? “A Roma, ai Prati, ma ogni giovedì prendo il treno e torno a Molfetta. Mi fermo alla stazione di Napoli Afragola e poi proseguo in auto. Non esistono ancora collegamenti veloci, ferroviari, tra Napoli-Bari. Nel 2026, grazie alle risorse del Pnrr, avremo questa linea e tutto cambierà”. Ordina un piatto di calamari e carciofi e dell’acqua. Racconta che il suo vino preferito è il rosato. Il cielo fuori ha il colore delle melanzane. Garofoli dice che per scrivere il libro ha fatto il reporter, insieme a Mattarella, lunghe interviste, e lo dice guardando la penna sul tavolo, che si perde sotto il tovagliolo, dice che “l’ambasciatore Michele Valensise si è presentato al nostro appuntamento preparato come fosse un esame”. Comincia così a parlare del suo, da magistrato, le prime esperienze a Taranto, da uditore, e poi delle toghe di Bari, lui che è pugliese, di Molfetta come Gaetano Salvemini, Riccardo Muti, l’Italia che dirige il pensiero e la musica. Com’era Emiliano da magistrato? “Era già il magistrato Emiliano, così come Gianrico Carofiglio era già Carofiglio, guardato con rispetto”. Adulazione? “Rispetto”. Qual era la sua corrente da magistrato? “Non ero iscritto a nessuna corrente della magistratura e non per snobismo. Preferivo così. Da ragazzo ho però fondato un’associazione che si chiamava Mortara, un’associazione culturale”. I suoi maestri? “Forse troppi, da elencare, uno da celebrare. Alberto De Roberto, ex presidente del Consiglio di stato”. E’ vestito con un abito blu, la cravatta annodata come una sentenza, definitiva, senza pieghe, gli occhiali tondi, una montatura rossa. Suggerisce di mangiare, “fermiamoci, un attimo e poi riprendiamo con la conversazione”, ma appena afferra il bicchiere ci ripensa e dice: “A volte mi chiedo se ci sia ancora la stessa passione, l’etica”. Fa tornare in mente quella frase di Borges, “mi occupo il meno possibile di politica, me ne sono occupato soltanto durante la dittatura ma quella non era politica, era etica”. La sua era etica? “Passione ed etica. Mi domando se ci sia ancora quel trasporto, che, attenzione, non significa rovesciare il mondo. Ideologizzarsi. Entravamo in magistratura convinti che fosse un impegno, un modo di servire il paese, straordinario. Oggi i numeri di chi partecipa al concorso in magistratura sono bassi”. Da magistrato lei l’avrebbe sequestrata l’acciaieria di Taranto? “Non so rispondere. So che però ho avuto la fortuna, da magistrato, di lavorare al ministero dell’Economia, al Mef, come capo di gabinetto. Un magistrato deve tenere conto degli effetti economici di una sua sentenza? Io credo di sì. Un magistrato che sequestra una fabbrica deve tenere conto, e lo ha stabilito anche la Consulta, che il diritto alla salute va conciliato con lo sviluppo economico. Non ci sono valori tirannici”. Sul piatto i carciofi fumano insieme all’economia che, pensa Garofoli, fosse per lui, aggiungerebbe come esame per le toghe, “ce n’è solo uno”, così come gli piacerebbe che si ragionasse della prevedibilità delle decisioni, perché “chi investe in Italia deve poter prevedere la decisione di un magistrato”. A Taranto, dove è nato, torna? “Certo. E’ sotto gli occhi di tutti che dopo il patteggiamento dei Riva sono stati effettuati quei lavori previsti dall’autorità giudiziaria, di ripristino ambientale. Rispondere alla domanda: ‘l’avresti sequestrata?’ è difficile, so che però all’Italia serve una siderurgia, so perché l’ho vissuto a Palazzo Chigi che il tema dell’indipendenza energetica non è solo uno dei tanti temi del nostro libro, ma un tema reale. Abbiamo un problema di come alimentare i dati center di Milano, che servono a sviluppare intelligenza artificiale, ma i data center vanno anche raffreddati, dunque l’emergenza energetica è anche emergenza idrica”. Racconta che dopo la guerra in Ucraina lo chiamarono gli imprenditori della ceramica emiliana che non riuscivano ad approvvigionarsi di materie prime e che al governo mancava un elenco di quali fossero queste materie prime. Avete redatto l’inventario? “Abbiamo rifatto le mappe delle nostre miniere. L’ultima mappa risaliva al 1973. Non è vero, come si dice, che l’Italia è povera. Abbiamo anche noi terre rare, abbiamo cobalto, litio, ma non sappiamo neppure di possederli. Gli iscritti alla facoltà di ingegneria mineraria sono pochissimi. Sono grandi questioni di sicurezza nazionale”. La coppia di anziani parla di Meloni, del governo, il cameriere ha già l’ansia, l’altra, la voglia di chiudere la cucina, di accendersi una sigaretta sul retro. Avevamo preparato il gioco delle lenti, pronti a chiedergli: Garofoli, si vede meglio con la riforma del premierato o con quella dell’autonomia? Serve la riforma dei servizi segreti o le lettere sono più chiare con la riforma della magistratura? E invece chiedo perché non abbiano cominciato il libro con pagina 279, dove Garofoli e Mattarella scrivono che “un singolo atto legislativo può contenere oltre 150 mila parole, per un totale superiore a un milione di caratteri: può essere quindi, un po’ più lungo dei Promessi Sposi”. Risponde che hanno scandito il libro, lasciato la giustizia, la legge, “la nostra disciplina”, nei capitoli finali e che voleva essere un elenco di fragilità, fragilità specifiche italiane. Da europeista cita la frase di Adenauer, “l’Europa unita era un sogno di pochi, è stata una speranza per molti, oggi è una necessità per tutti”. Esisterà l’Europa, ancora? “Non basta da sola”. Avremo un grande esercito europeo? “Spendiamo già più della Russia ma la capacità di deterrenza è ridotta”. Lei è un boiardo, un mandarino? Alla domanda sorride e non accetta la provocazione, neppure quando gli viene fatto notare che all’inizio del governo, il ministro Guido Crosetto, aveva parlato di machete per sfrondare la burocrazia, e non solo. E’ andato via il Ragioniere dello Stato, Biagio Mazzotta, ha lasciato il dg del Mef, Alessandro Rivera, e Garofoli dice: “Tutte professionalità eccezionali”. Il governo Meloni perché li ha cacciati? “Magari ne parliamo, dopo. Era una possibilità del governo sostituire, la differenza la fa sempre il modo”. Si ricorda di Rocco Casalino, sotto il governo Conte I, che voleva dare una lezione ai dirigenti del Mef, “ai pezzi di merda”? Non era lei il capo di gabinetto del ministro? “Ero io, ed era un momento difficile. Il lutto per mio padre. Ma in questi casi c’è sempre una soluzione”. Lasciare? Dimettersi? “Io ho lasciato”. L’ex ragioniere dello Stato Mazzotta si è dimesso e poi è stato nominato presidente della Fincantieri. Non crede ci abbia guadagnato? “Nessuno ha mai conosciuto il bilancio dello stato come lo conosceva Biagio. E’ un amico, come lo è Daria Perrotta, la ragioniera della stato nominata dal ministro Giancarlo Giorgetti. A Biagio mancava forse Daniele (Franco). Insieme si completavano”. Si ricorda quando cominciammo a chiamarla al Foglio, “il soprasegretario”? “Ricordo”.
Da sottosegretario del governo Draghi raccontavano che ogni mattina telefonasse ai ministeri per chiedere lo stato di avanzamento del Pnrr mentre in conferenza stampa, capitava che Draghi lo indicasse per annunciare: “Questo lo spiega Garofoli”. Le sue guance allora arrossivano, poi come da bambini, quando si monta in bicicletta, Garofoli, in equilibrio, parlava di decreti attuativi, della golden power, di tutelare asset italiani. Fingevamo di sapere di cosa parlasse come fingiamo adesso di essere esperti di politica industriale. Se fosse ancora a Chigi proporrebbe la golden power per proteggere le banche italiane? Se fosse ancora a Chigi cosa rafforzerebbe? Fa notare che se si dovessero guardare i numeri risulta evidente che “la golden power è stata applicata poche volte. Ci serve ma non può diventare uno strumento per fare politica industriale” e che abbiamo un problema di rappresentanza in politica estera. I dazi? “Dovremmo chiederci come ci presentiamo all’estero. Ci arriviamo già divisi. Ogni regione ha le sue sedi di rappresentanza che si aggiungono alle ambasciate del ministero”. Giorgia Meloni le ha mai telefonato? “No”. Riusciremo a completare le riforme del Pnnr? “Abbiamo avuto un ottimo ministro e oggi commissario europeo, Raffaele Fitto”. Un altro pugliese? “Un pugliese di valore. Il 14 marzo si confronterà con Paolo Gentiloni, parleremo del libro”. Chiudono la cucina e finiamo fuori insieme alla coppia che si è tenuta per mano, due bellissimi pensionati, che hanno ascoltato tutto. Si avvicinano e rivolgendosi a Garofoli si complimentano per la sua voce. Gli propongo di accompagnarlo ancora per poco e chiedo perché non volesse parlare della vecchia offesa del M5s. “Perché me la sono lasciata alle spalle. La ‘cosa’ è per me quell’anno e mezzo di governo”. Dunque come è iniziata? “Il primo giorno?”. Il primo giorno. “Mi presento a Draghi, che non conoscevo, e ho iniziato a elencargli i dossier”. E lui? “Mi ha interrotto dicendomi con semplicità: ‘il suo metodo non è il mio. Io ragiono a una cosa per volta. Cambiammo metodo”. E quale avete usato? “Ovviamente il suo”. Esplodiamo in una risata e ci separiamo da quel tempo, che è stato “il tempo”, quello di Montanelli, “quello della serietà e dell’impegno, della buona volontà e della buona fede, di cui serbo ancora oggi il rimpianto”.