Il racconto

Il "compare" Angelucci, l'editore del Giornale che ora la Lega processa: "Aiuta Meloni, ha tradito i patti"

Carmelo Caruso

Candidato nella Lega, amico di Salvini, viene accusato dai leghisti di essere meloniano, "al prossimo giro si candida con Fdi", "di non versare contributi ai gruppi"

Ecco come  si spegne un mestiere, si mortifica una storia: ecco come  un giornale, Il Giornale, non può fare il giornale. Titolano in prima pagina con una notizia, con il capogruppo della Lega, Molinari,  che dice “Trump ci farà male e daranno la colpa noi”, ma la confidenza passa come una manovra a favore di Meloni, a scapito di Salvini, tanto da far dire ai leghisti: “Perché ci hanno aperto il quotidiano? Angelucci non è nostro?”. Da due giorni, sul Giornale, vengono pubblicate abiure Lega senza neppure la malizia: “Cari leghisti, siamo matti noi o poco liberi voi?”. L’editore del Giornale, al settanta per cento, è Antonio Angelucci, deputato della Lega, e possiede anche Libero e Tempo. L’ultimo leghista che lo ha visto, in Aula, ricorda: “Cercava il convegno di Meloni. Al prossimo giro si candida con FdI. Ha tradito i patti”. Quali? Lo processano ora, sulla carta, perché da editore è poco compare con Salvini e da compare fa l’editore di Meloni.


Quando si spegne “il mestiere”? Si spegne quando un quotidiano deve imbarazzarsi per una notizia. Si spegne quando un partito, in questo caso la Lega, crede, perché lo ha fatto credere Salvini, che candidare Angelucci equivale ad annettere una redazione, Il Giornale. Dice il giornalista Massimo Fini, la firma che si fece Indipendente con Vittorio Feltri, il Celinè con le Gauloises: “Tutti i giornali hanno un editore e in qualsiasi giornale, vero, esiste un padrone. La differenza la fanno gli editori abili che servono solitamente, bene, politici altrettanto abili. Avere una fronda in un giornale amico, di area, aiuta più di avere un giornale servile, che impagina veline sgangherate. La libertà delle firme, dei direttori? Si conquista. La libertà si può prendere anche con una congiunzione, un punto, un’esclamazione, anche in un’intervista che nasce come un soffietto. Un editore? Deve conoscere quanto scrivono i suoi  giornalisti o almeno far finta di saperlo. Un editore non deve affittare il suo giornale a un leader, anche perché, alla fine, i leader passano. I giornali di Angelucci mi sembra che inseguano due amori e finiscono per amare, male, tutti e due. Devono rispettare Salvini, ma sanno che Salvini è in caduta e dunque si schierano con Meloni, ma Meloni non ha bisogno dei giornali. Fa benissimo da sola. Angelucci vuole imitare Berlusconi, ma non ha l’abilità di Berlusconi”. Venerdì mattina il Giornale ha aperto la sua edizione con quello che pensano tutti i leghisti quando non sono visti da Salvini. Dicono che “la linea estera la decide Salvini ma che il novanta per cento del partito, non la condivide”. In realtà è il novantotto per cento, e il partito dice pure che ormai “le carte le dà Claudio Borghi”, che “fare i trumpiani non sta facendo salire il consenso”, che “Angelucci non versa i contributi al gruppo, almeno da quanto si legge sul sito” che “aver scelto di aprire sulle parole del nostro capogruppo è una strategia sottile per spostare l’attenzione da Meloni a Salvini, a cui tutti, anche a destra, possono dare pedate”. La Lega è quel partito dove è inutile virgolettare perché i parlamentari  interpretano una parte, e  la verità, quando esce, viene castigata con interviste con il cilicio. Nella Lega non si può dire, e passi, ma perché un giornale, come il Giornale, fondato da  Montanelli, controcorrente, che dovrebbe avere l’ambizione di pensare: “Cari leader, voi un giorno tramonterete, ma il Giornale resterà”, perché il Giornale non può dare una notizia senza che si pensi che dietro ci sia un aiuto a Meloni? Dopo il retroscena tutti i leghisti non hanno contestato le parole strappate, ma Angelucci, l’editore deputato. Hanno cominciato a dire che “Libero e Giornale non ci sono amici”, “perché abbiamo candidato Angelucci?”. 

 

Da quando la simpatia di un giornale dovrebbe fare omettere una notizia che rivela solo un malessere? E i giornalisti come possono ancora darle con un editore che toglie la manleva, che lascia la sua redazione senza tutele contro la furia di qualche prepotente? Dice sempre Massimo Fini: “Se è vero che al Giornale hanno tolto la manleva, questo non è più giornalismo. Scrivi pensando che rischi di buttare la tua vita. Non funziona. Il Berlusconi editore  rispetto a questi nuovi era, come nella canzone di Battiato, un essere speciale”. Il Giornale è al settanta per cento degli Angelucci e l’altro trenta appartiene alla famiglia Berlusconi. Cosa se ne fa, la famiglia,  di quel trenta? Il Giornale appartiene, e non solo per spirito, a Marina Berlusconi, che al Foglio si dice spaventata da Trump, infastidita dai trumpisti italiani. Appartiene a Piersilvio Berlusconi, l’editore di Mediaset, che ha inzuppato i suoi canali del peggiore trumpismo italiano, insieme al suo Oppenheimer, il direttore dell’Informazione, il  distruttore di mondi, Mauro Crippa, uno che di cui ora, Piersilvio, si vuole liberare, pensionare, mandare a casa, come Tomas Nevinson, l’agente segreto del romanzo Berta Isla, l’addetto al pensiero sporco, che il suo superiore cacciava con disprezzo perché “la tua vita l’hai scelta e non dire che non ti sia piaciuta”. 

 

I giornali hanno sempre avuto un padrone. Repubblica con De Benedetti, oggi Elkann, Il Giornale con Berlusconi, il Corriere ha Cairo, che si è ripreso Solferino, anche solo per poter dire che i suoi giornalisti lavorano sul tavolo che è stato di  Buzzati, Montale, Ronchey, Bettiza, Spadolini, Mieli, Stille, Sallusti, Feltri, Merlo, Zincone. Gli Angelucci  possiedono ben tre giornali, tre giornali che Meloni non si deve conquistare ogni giorno  perché già sicura di avere, tre giornali che per Salvini tifano Meloni, tre giornali che hanno una linea lontanissima da  Tajani. Sono tre elegantissime tabacchiere che gli Angelucci non sanno neppure portare in tasca.

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  • Carmelo Caruso, giornalista a Palermo, Milano, Roma. Ha iniziato a La Repubblica. Oggi lavora al Foglio