
(Ansa)
Le mosse italiane
Il pericoloso dilemma di Meloni: irrilevante o trasversale?
La premier non può dire addio a Zelensky e abbracciare Trump. Ma obbligata a stare sulla scena europea e del mondo, non può neppure occuparsi d'altro o rifugiarsi nel riserbo. Il punto di equilibrio è complicatissimo. Un rischio e un'opportunità per la presidente del Consiglio
Due cose Meloni non può fare in politica estera e di sicurezza: la prima è dire addio a Zelensky e all’establishment europeo che lo sostiene come può, la seconda è abbracciare Trump e fidanzarsi a casa con un uomo di cui è sempre più intuibile l’infedeltà al contratto matrimoniale con l’occidente. Obbligata a stare sulla scena europea e del mondo, non può ritrarsene e occuparsi d’altro o trasformare la sua recente arte del riserbo, del rinvio, del defilamento, in una prassi regolare, in mutismo. Sull’eroe ucraino, con testimonianze di appoggio e di amicizia e giuramenti di lealtà, Meloni ha costruito molto più di un abbraccio retorico al patriota, il che già non sarebbe poco. Tutti hanno giudicato l’evoluzione di Meloni da capo partito in vena di demagogia a capo di governo capace di sperimentare il mainstream, di fare politica sul serio, di attraversare attrezzata per una lunga marcia le istituzioni europee e il palcoscenico internazionale, prendendo le misure della sua preveggente e originaria capacità di identificare l’interesse nazionale e quello europeo con un precoce, testardo e solido schierarsi con l’aggredito e contro l’aggressore. Anche se la Casa Bianca fosse riuscita a spacciare la parola “pace” per una bandiera nuova di riconciliazione da sventolare come un tabù, per mascherare il divorzio dall’Unione europea e l’adulterio con Putin, che dichiara apertamente coincidenti le politiche estere del Cremlino e di Washington, non ci sarebbe spazio per un salto della quaglia italiano, per la solita conclusione della guerra dalla parte opposta della trincea in cui è stata fin qui combattuta (ciò che avvenne proverbialmente nella Prima e nella Seconda guerra mondiale, e non sono bruscolini). L’oscena carnevalata sulla pelle degli ucraini tentata dal presidente americano può risultare convincente per una parte del popolo Maga, ma non esce dai confini di una propaganda d’intesa con il nemico, con l’invasore, e chiunque se ne è accorto, in particolare dopo il “no” di Zelensky al ricatto in diretta televisiva. Insomma, la via di una conversione in direzione opposta e contraria della posizione italiana e meloniana sulla guerra europea scatenata dalla Russia, per molte ragioni anche non etiche o morali, è preclusa.
D’altra parte Meloni, per mille ragioni, non può nemmeno andare al di là di una convergenza legittima con alcuni motivi portanti del trumpismo come i temi identitari e nazionali, la denuncia dei guasti del correttismo politico e del conformismo intellettuale del mainstream di sinistra, la critica degli eccessi green e delle tendenze omologatrici della cancel culture in vitali questioni etiche. Su quel piano però c’è un limite che il progetto conservatore di Meloni incontra subito: la sgangherata acquiescenza del trumpismo ai fenomeni di populismo reazionario della destra europea, che perfino il lepenismo (vedi il caso Bardella-Cpac) mostra di non sopportare. Anche l’aggressione trumpista al fantasma del Deep State, la sua espansione tendenzialmente autoritaria dello spazio dell’esecutivo a detrimento della divisione dei poteri, per non parlare della sempre più minacciosa intolleranza verso la libertà di stampa, entra in conflitto con la logica di coalizione della maggioranza Meloni, con la natura da lei rispettata della Repubblica parlamentare italiana e dei vincoli europei. E la partita economica è un muro divisorio insormontabile, visto che Germania e Italia sono i due paesi europei che pagherebbero più caro il passaggio eventuale di Washington dalle minacce ai fatti in tema di dazi.
Meloni dunque non può che cercare un complicatissimo e difficilissimo punto di mediazione e di equilibrio, reso ancora più precario dalla propaganda scalcagnata del suo vice leghista, in una situazione sottoposta agli sconvolgimenti che le prime settimane dell’Amministrazione hanno provocato nel mondo. In una situazione intrattabile per definizione si presentano per la presidente del Consiglio un rischio e un’opportunità. Il rischio è l’irrilevanza, appunto il defilamento obbligato, l’incapacità di elaborare politiche e iniziative che non siano passive, che siano al livello della sfida posta dai fatti, mentre i partner europei cercano una via di mediazione attiva e almeno in teoria si sentono chiamati a quel che si dice una nuova leadership nel campo occidentale (poi si vedrà che fine faranno le loro ambizioni obbligate del momento). L’opportunità è la capacità di parlare a tutti, Trump compreso, ma all’interno di una scelta di schieramento e di identità strategica che legittimerebbe definitivamente e senza riserve Meloni come un’esperienza di stato importante nell’Europa contemporanea e nel mondo. Il problema è tutto lì, per Meloni: che sia sempre chiara la scelta strategica europea e l’opposizione di fatto e di principio al progetto di restaurazione neoimperiale russo come alle derive di nuova alleanza delle democrature o delle autocrazie cui conduce il trumpismo.