
(Ansa)
L'editoriale dell'elefantino
Il pride pro Europa di Michele Serra
Un'allegra sfilata di convenzionale conformità all'ideologia modernista per affrontare, con la necessaria levità valoriale, gli abissi di realtà che ci si sono spalancati davanti con la vittoria strategica regalata alla Russia di Putin. L’ occidente è figlio del "momento Churchill", non di Ventotene
A forza di frequentare l’Impostore e le sue gesta, oltre a Mel Brooks e Groucho Marx, e magari Woody Allen o i Monty Python, mi capita qualche volta di citare Churchill, il momento Churchill, quando quel vecchio aristocratico, politico e uomo pubblico controverso e diabolico, riuscì a entrare a Downing Street al tempo della guerra di Hitler contro l’Europa (1940), rovesciò l’appeasement della Conferenza di Monaco che circa un paio d’anni prima aveva svenduto un pezzo d’Europa al Terzo Reich in cambio della “pace per il nostro tempo”, organizzò la resistenza eroica e il contrattacco di cielo terra e mare fin quando alla fine arrivarono i nostri, cioè gli americani di Roosevelt, di Eisenhower, di Patton e della Carta atlantica, simulacri di un’America scomparsa sotto l’Impostura. Riconosco che “il momento Churchill”, ora che al modesto piano von der Leyen di “riarmo” europeo si rimprovera con sfrontata dabbenaggine il titolo non eufemistico (riarmo, ovvio, visto che di quattrini e sistemi d’arma si tratta), può sembrare un’anticaglia di cultura novecentesca e perfino ottocentesca, di sapore vagamente coloniale.
A leggere su Repubblica Michele Serra pare di capire che l’Europa occidentale e quella orientale liberata dopo il crollo del Muro di Berlino, quarant’anni dopo l’inizio della Guerra fredda, sono figlie del manifesto di Ventotene e di un’utopia pacifista, non del momento Churchill (con l’assistenza del momento De Gaulle) e dell’eroismo dei piloti della Royal Air Force, la Raf, e dei civili di Londra e Coventry bombardati per oltre un anno dalla Luftwaffe di Göring e Hitler. L’Europa di Michele, quella per cui vale la pena di difendersi, ma possibilmente evitando il riarmo che a lui non piace, è welfare, diritti, diversity, multilinguismo, inclusione e altri “valori”. La manifestazione romana pro Europa chiesta da Serra e annunciata per la metà del mese sarà dunque un pride, una sfilata allegra e di convenzionale conformità all’ideologia modernista per affrontare con la necessaria levità valoriale, insomma con il culo al caldo, gli abissi di realtà che ci si sono spalancati davanti con la vittoria strategica regalata a Putin, che bombarda il suo pride tutti i giorni senza pietà per l’Ucraina, dall’Impostore e dalla sua decisione di abbracciare i suoi simili euroasiatici e di mollare gli alleati del vecchio mondo euroatlantico, tagliando le munizioni e l’intelligence, ricattando e maltrattando quel piccolo brandello di churchillismo che ha il nome di un eroe di guerra, Zelensky, proclive alla resistenza e alla pace ma non alla capitolazione. Auguri, ma not in my name. E neanche nel nome del vecchio Giuliano Amato, che in un’intervista parallela a Repubblica, mostrava ieri di tenere alla storia e ai fatti più che al radicamento ideologico delle utopie. Dice Amato, che ringrazio a nome di famosi “atei devoti” e dei ratzingeriani e giovanpaolini di tutte le latitudini: “Chiamo in causa anche la responsabilità di convinti democratici come me che negli ultimi cinquant’anni hanno sostenuto qualsiasi battaglia progressista senza rendersi conto per tempo della crescente distanza, talvolta eccessiva, rispetto ai valori tradizionali che tengono unite le nostre società. Questo vale sia per il nostro paese che per gli Stati Uniti”. Mi sembra chiaro, anche se poi Amato sente il bisogno di depistare il lettore, citando Pasolini invece che Ratzinger come emblema di una critica del modernismo sradicatore della tradizione e del suo senso unitivo. Ma va bene, non si può avere tutto dalla vita.
Per tornare a Serra, e poi verremo a un altro Serra, bisogna segnalare che quando si pastrocchia da benintenzionati con le idee, finisce che si dimenticano i fatti. Nel suo articolo per un’Europa scanzonatamente diversa e capace di tutela disarmata di diritti inclusivi e bonus, Michele incorre in una strana omissione. Dice che bisogna ricordare il precedente dell’Ucraina, “la sanguinosa dissoluzione nazionalista e micronazionalista della ex Jugoslavia”, e bisogna farlo “perché già allora, di fronte prima alle indolenze, poi alle complicità dei paesi europei, qualcuno si chiese ‘ma dov’è l’Europa? e perché non fa nulla?’. Si udì, in quei momenti terribili, la voce della Nato, che aggiunse la sua al fracasso militare. Non fu udibile la voce dell’Europa”. Ora i meno smemorati ricorderanno che il “fracasso militare” della Nato, arrivato dopo la strage di Srebrenica (estate 1995), impose con una campagna di bombardamenti chiamata operazione Deliberate Force gli accordi di pace firmati a Dayton qualche mese dopo l’orrore, in una base militare dell’Ohio, una pace che, per quanto sempre avvelenata da contrasti e pericoli, dura continuativamente da circa trent’anni. Se avessero aspettato l’Europa dei valori le micronazioni esplose nella ex Jugoslavia, benedette dal fracasso militare della Nato, sarebbero ancora nel pieno “della dissoluzione sanguinosa”.
L’altro Serra si chiama Maurizio, è un diplomatico, un saggista politico e storico di grande temperamento e di intelligente erudizione. Ha appena pubblicato un bel libro da Neri Pozza, il cui titolo è “Scacco alla pace”. Maurizio Serra fa con tacitiana lucidità la storia della Conferenza di Monaco e dell’appeasement. La conclusione è ineccepibile. Monaco, nonostante le tortuosità nei rapporti tra potenze democratiche e non, che non mancarono, è passata alla storia come un “canone negativo”. Se ti accordi con un nemico autocratico e totalitario, che ti chiede un pezzo della tua carne occidentale, e glielo fornisci, il risultato di questo appeasement non sarà la pace ma una guerra generale di cui sarai la vittima. Non è più difficile di così. Riecco il momento Churchill nella penna di un eccellente storiografo. Con una riserva che dice molto sulla situazione scabrosa di oggi. Churchill fu quello che nel 1940 volle resistere a ogni costo alla guerra dispiegata e che due anni prima predicava contro il tradimento della Cecoslovacchia, l’Ucraina di allora. Ma fu anche quello che nel 1945, a guerra vinta, nella Conferenza di Jalta, contribuì a cedere a Stalin e al dominio sovietico la Polonia e la stessa Cecoslovacchia. Vero. La regola generale astratta che è la forza che fa il diritto si fece sentire nell’incontro dei tre grandi sul Mar Nero. E Maurizio Serra scrive: “La conferenza di Jalta (febbraio 1945) e quella di Potsdam (luglio-agosto 1945) replicarono la ferrea logica di Monaco circa la divisione del continente: i ‘grandi’ avrebbero deciso per i ‘piccoli’, che dovevano nuovamente piegare la testa”. Un lettore distratto a questo punto potrebbe sentirsi autorizzato a pensare: “Altro che momento Churchill, quando la realtà si impone non si può andarle contro”. Che è precisamente il punto di forza a cui si appoggia l’Impostore per regalare influenza, dominio e minacciose inclinazioni verso l’Europa al suo nuovo amico e alleato Putin.
A Jalta Churchill non aveva le carte, punto. Stalin già occupava i territori che gli furono attribuiti, ed era a ottanta chilometri da Berlino. Con una differenza che andrebbe invece apprezzata e valutata. L’accordo era tra i vincitori che avevano sconfitto il Terzo Reich, non un negoziato con il nemico, come a Monaco, per conquistare la pace per il nostro tempo sacrificando una nazione e il resto, fino alla guerra; e la divisione del mondo in zone d’influenza diede all’autocrate sovietico quello che si era già preso, salvo poi impegnarlo (terzo momento Churchill, il discorso di Fulton del 1946 sulla “cortina di ferro” calata sull’Europa) in una quarantennale guerra fredda di contenimento e roll back che fu vinta nel 1989. Vittoria che Putin considera con spirito revanscista. Una bella differenza dalle trame dell’Impostore, dal momento Trump. Ecco, queste considerazioni solo per dire che il riarmo europeo può contribuire a cambiare le cose più del rimpianto del Manifesto di Ventotene e della prematura nostalgia del welfare.
