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Il racconto
Elly a pezzi. Spacca il Pd sul riarmo, minaccia di azzerare la segreteria. Dice: "Non passerà impunito"
Costringe il partito ad astenersi, ma scoppia la protesta dei riformisti e di chi chiede i congresso. Gabinetti di guerra, note, telefonate. Le perplessità di Gentiloni e Franceschini
E’ il primo Papeete con l’ombrello, il 18 brumaio senza corona. Si spaccano sul riarmo, per decisione di Elly Schlein, senza il Venditti di “Modena”, sotto la pioggia di marzo. A Bruxelles, 11 astenuti e 10 a favore, Stefano Bonaccini sbatte il pugno sul tavolo perché “non è passata neppure a salutarci, a spiegare. Come pezze”. Lucia Annunziata sbaglia il voto, si corregge, si astiene, come chiede Schlein, “ho scelto la lealtà”. Peppe Provenzano, responsabile esteri del Pd, esautorato, dice che “anche la seconda internazionale si è divisa”. Torna la parola congresso, anticipato, lo chiede Marianna Madia, e con la parola arriva l’avviso della segretaria, “il gesto non rimarrà impunito”, “potrei azzerare la segreteria unitaria”. Non vuole i cannoni ma le piace il pugnale.
Ha telefonato a tutti e 21 i suoi eurodeputati e a ciascuno di loro, Schlein, ha chiesto obbedienza, “perché è un voto sulla mia persona. Se l’astensione non passa, se prevalgono i sì sarà la mia crisi”. E’ riuscita a svegliare Bonaccini che era il peso molle del Pd, che gli dice, prima di votare sì: “Non siamo guerrafondai. Stai sbagliando”. Alessandro Alfieri, che ora guida i riformisti, è un altro che ha provato a farle capire, “guarda che Meloni è diventata credibile quando ha votato con Draghi sull’Ucraina”. Neppure una riunione, una direzione, nulla, come se si votasse la lunghezza delle zucchine e non un piano di difesa europeo, per carità, raffazzonato, ma pur sempre qualcosa, come se non si votasse contro la propria famiglia, la socialista, che già definiva il gruppo italiano, come “imprevedibile”.
Zingaretti si disarma, da capo delegazione, di fatto sfiduciato: “Mi adeguo alla decisione della segretaria”. Crede che Schlein lo candiderà sindaco di Roma, lei che già pensa di sostituirlo, a Bruxelles, con Camila Laureti. Un lavoro di mesi viene macerato, il testo armonizzato, con le richieste di Schlein, cestinato. Ci provano tutti, Gentiloni, attraverso amici, “questo voto non verrà dimenticato”, Franceschini: “Pensaci”. L’astensione è addirittura definita “un grande lavoro diplomatico”. A che prezzo è arrivata, nel Pd, la sicurezza dell’Europa? Al momento vale una candidatura a governatore. Dario Nardella, che due giorni prima, sui giornali, si dichiarava a favore del piano, si astiene come Matteo Ricci, entrambi per strappare un biglietto di ritorno in Italia. Alla Camera, Virginio Merola, l’ex sindaco di Bologna, che i voti li ha, e che conosce Schlein, bene, dice fischiettando, “beh, mi sembra un capolavoro”, l’altro ex sindaco di Rimini, Gnassi, “meglio che sto zitto”, Stefano Graziano, capogruppo in Vigilanza Rai, risponde “eh, eh”. Gianni Cuperlo che legge l’antropologo Remotti, e che ha sostenuto Schlein, è il primo, insieme a Madia, Lia Quartapelle, a parlare di “un momento di discussione, con un voto, perché non voglio leggere cosa pensa la segretaria su un quotidiano, io voglio ascoltarlo da lei in direzione”. Matteo Orfini che viene dal Pci e che sarebbe capace di dire, anche in mezzo a un terremoto, del nono grado, “stiamo calmi, e solo una salutare discussione della terra”, spiega che “tutti siamo d’accordo che il piano von der Leyen non andava bene. Diciamo che si è discusso”. Su un divano, Provenzano, il titolare della politica estera, esautorato da Igor Taruffi che ha gestito la trattativa per conto di Schlein, viene circondato, e lui che da ragazzo voleva fare il giornalista, “avevo il nome della rubrica: ‘Lettera da Milena” come Kafka, ma con il ‘da’ Milena, che è il mio paese”, si trattiene, “perché sono grandi temi, e la discussione è stata civile”. Soffre, ma tace come i siciliani da pane duro, lui che una volta ha sentenziato: “Io non perdono, al massimo dimentico”. Passa Schlein, diretta in Aula, e lo chiama, “Vieni!”. Raccontano che tutte le chiamate che ha fatto Schlein le cominciava “con caro e cara” e tutti capivano che gli stava per chiedere il giuramento. Si rintana al Nazareno e anche i funzionari rispondono: “C’è un war room in corso”. Lo staff: “Ci sarà una dichiarazione”. Arriva la dichiarazione e sembra scritta da Giuseppe Conte che in Aula ci ferma sorridendo: “Come vota il Pd? Ah, metà si astiene e metà sì? Ah, quindi metà Pd? Quale Pd?”. Nicola Fratoianni, che è ancora innamorato dal suo vecchio marmittone Alfa Romeo, quando gli dicono che Schlein sta provando a superare a sinistra, lui e Conte, risponde: “Semmai resta alla mia destra, metà del suo partito si è astenuto”. Chi è andato alla Conferenza della Cia, il sindacato degli agricoltori convinto di trovare Schlein, come programma, si trova in compagnia del ministro Lollobrigida, che si prende gli applausi. In dieci giorni, il Pd ha perso la Cisl, e ieri ha perso anche i trattori di sinistra. Viene inoltrata la nota di Schlein e vale solo per le prime tre righe, che sono la dichiarazione dei diritti dell’impotente e del confuso: “All’Europa serve la difesa comune, non la corsa al riarmo dei singoli stati. E’ e resta la posizione del Pd”. Ma quale, il suo, o dell’altro? Dice Gianfranco Fini, di passaggio, alla Camera, che “la politica estera è per qualsiasi partito il momento doloroso, il momento delle scelte. A Schlein si possono fare solo gli auguri”. Ora è lei a dire: “Potrei anticipare il congresso, azzerare la segreteria, farne una tutta mia”, ma ci vuole coraggio. Si astiene anche dal fare il suo 18 brumaio, il colpo di stato, perché ama il pugnale ma non riesce ad affondarlo. Sta a metà tra Salvini e Napoleone.
