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Enrico Letta

Cosa può fare l’Europa per trasformare in oro il bullismo del presidente americano? Primo punto: superare l’unanimità

Pubblichiamo l’estratto di un discorso tenuto lo scorso 11 marzo dall'ex presidente del Consiglio Enrico Letta, nell'ambito del convegno “Corporate Governance and Capital Market for Competitive and Sustainable Europe” organizzato da Assonime in collaborazione con l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico e con il supporto di Borsa Italiana


Quella che viviamo in questi giorni è un’accelerazione cruciale e decisiva. Mai come oggi, il cambiamento in atto merita di essere colto come un’occasione unica e irripetibile. Un’opportunità per colmare le lacune di un decennio di Capital Markets Union, un progetto che, finora, non ha raggiunto gli obiettivi inizialmente immaginati. Qual è la differenza rispetto agli ultimi dieci anni? Cosa si può fare concretamente oggi? Quali sono le poste in gioco e qual è l’obiettivo?  (...)

L’operazione che la scorsa settimana ha portato alla decisione del Consiglio Europeo, approvata da 26 Stati membri, con la sola eccezione dell’Ungheria, ha creato le condizioni per un primo tentativo concreto di collegare l’integrazione dei mercati dei capitali ai grandi investimenti nei beni pubblici europei. Questo è il vero elemento di novità, un dato di fatto che segna un cambiamento incontrovertibile. Su questa base, ritengo ci siano alcune azioni da intraprendere, ed è proprio su queste che, in pochi minuti, vorrei condividere la mia visione.

Innanzitutto, è essenziale che questa riflessione non si fermi alla sola difesa. Lo dico con assoluta chiarezza e convinzione, perché, a mio avviso, uno dei principali rischi di fallimento di questa operazione sarebbe proprio la sua limitazione esclusiva al settore della difesa. Se così fosse, non si riuscirebbe a raggiungere l’obiettivo più ampio e strategico che invece può essere realizzato: finanziare i beni pubblici europei attraverso investimenti privati. Questa è, a mio avviso, l’unica strada per costruire un consenso tra i 27 Stati membri su un modello misto di finanziamenti pubblici e privati. Lo sottolineo perché, nel lavoro di preparazione del rapporto – che mi ha portato a confrontarmi con tutti e 27 i governi – ho avuto modo di constatare direttamente una frattura politica fondamentale in Europa. Una frattura che non si gioca tanto sull’asse destra-sinistra, quanto piuttosto sulla divisione tra Paesi fortemente indebitati e Paesi con bilanci più solidi. In particolare, i Paesi del Nord Europa, che non affrontano le stesse pressioni legate al debito pubblico, non hanno interesse né una spinta politica a convergere con Paesi come Francia, Italia e Spagna, che invece devono gestire livelli di indebitamento molto più elevati. Questa differenza è profonda e strutturale. (...).

L’unico modo per superare la contrapposizione tra i Paesi del Nord e quelli dell’Europa latina è, a mio avviso, un’operazione che si articola su tre aspetti centrali. Il primo riguarda la credibilità nella gestione delle risorse del Next Generation EU. Italia e Spagna, che ne sono i principali beneficiari, hanno una responsabilità chiave: senza una dimostrazione chiara e concreta della serietà nell’utilizzo di questi fondi, qualsiasi operazione di investimento pubblico comune europeo rischia di essere bloccata. Questo punto, per quanto ovvio, rappresenta una precondizione che non può essere trascurata.

Il secondo aspetto riguarda il ruolo centrale degli investimenti privati, su cui i Paesi meno indebitati puntano in maniera determinante. La loro disponibilità a negoziare un accordo complessivo dipende dalla capacità di integrare il finanziamento pubblico con capitali privati, una scelta che in alcuni Stati è diventata una priorità strategica. È proprio su questo punto che si inserisce la creazione dell’Unione dei Risparmi e degli Investimenti, un meccanismo pensato per colmare il divario strutturale tra risparmi e investimenti, che in Europa ancora non esiste. Questa operazione non solo fornirebbe una prima base di risorse private per sostenere gli investimenti pubblici europei, ma rappresenterebbe anche una sorta di garanzia politica da parte dei Paesi più indebitati nei confronti di quelli con bilanci più solidi. Insisto su questo punto perché, per quello che ho potuto osservare nei miei incontri in tutta Europa, si tratta dell’elemento chiave su cui si gioca la possibilità di arrivare a un’intesa. Se non si riconosce la necessità di concentrarsi su questo aspetto in modo prioritario, diventerà impossibile trovare un accordo a 27 o a 26, per un’operazione che è già di per sé molto complessa ma che può funzionare solo se si costruisce una convergenza solida su questo tema.

 

Infine, il terzo elemento è quello della difesa, che assume una rilevanza particolare per ragioni geografiche. Mentre su altri temi le divergenze tra Nord e Sud Europa sono più marcate, sulla difesa esiste una spinta significativa da parte dei cosiddetti Paesi frugali per rafforzare la capacità fiscale europea in questo ambito. Questa posizione è legata alla diversa percezione della sicurezza, influenzata dalla vicinanza geografica alla Russia. Nei Paesi nordici la necessità di rafforzare la difesa europea è molto più sentita rispetto a quanto avviene in Portogallo, Spagna o Italia, mentre la Francia adotta un approccio distinto, legato alla sua tradizione militare e alla gestione autonoma dello strumento di difesa. Questo elemento rappresenta una leva politica fondamentale e deve essere considerato parte del nostro interesse. Creare un meccanismo di finanziamento comune per la difesa è per questi Paesi una prospettiva realistica. Se questa possibilità viene riconosciuta e valorizzata all’interno del disegno complessivo di cui stiamo parlando, allora diventa possibile estendere il principio anche ad altri grandi beni pubblici comuni, che è il punto di partenza di questa riflessione e il nodo centrale del mio intervento di oggi.

Questa occasione è davvero irripetibile per le condizioni che ho appena descritto: la possibilità di avviare un meccanismo comune di finanziamento per la difesa e, al tempo stesso, di estenderlo ai grandi beni pubblici europei, che nessun Paese è più in grado di sostenere da solo. Nemmeno la Germania, pur avendo un surplus, può farlo, poiché le limitazioni imposte dalla Corte di Karlsruhe hanno ristretto fortemente il margine di utilizzo di queste risorse. Alla fine, nessuno Stato membro può affrontare da solo l’enorme fabbisogno finanziario necessario per investire nei beni pubblici comuni europei, tra cui la difesa.

Ma la sicurezza non si esaurisce nella dimensione militare. Lo strumento militare è solo una parte di un concetto più ampio di sicurezza. Sicurezza significa, ad esempio, avere un mercato finanziario europeo solido e resiliente, che impedisca all’Europa di diventare una colonia della finanza americana. Significa indipendenza energetica, per non essere esposti alle crisi internazionali che minano la stabilità economica. Significa indipendenza della connettività, per evitare di dipendere da infrastrutture digitali che non controlliamo pienamente. Parlare di sicurezza limitandosi agli aspetti militari sarebbe insufficiente e riduttivo. In questo contesto si inserisce la creazione di un ponte tra risparmi e investimenti: l’Unione dei Risparmi e degli Investimenti. Il suo battesimo istituzionale è ormai avvenuto con i documenti della Commissione Europea, ultimo tra tutti la lettera di Ursula von der Leyen. Ma l’aspetto decisivo, come sa bene chi conosce le dinamiche e le liturgie comunitarie, è che la vera cartina di tornasole per capire se un progetto ha possibilità di successo è osservare i portafogli dei commissari. La vera novità della nuova Commissione von der Leyen è che l’Unione dei Risparmi e degli Investimenti è entrata ufficialmente tra le missioni europee, il che significa che non è solo una formula linguistica, ma un progetto con una precisa sostanza politica e strategica.

La differenza rispetto alla Capital Markets Union è sostanziale e può essere spiegata in termini molto semplici. La Capital Markets Union è stata concepita essenzialmente come un’operazione di finanza per la finanza, destinata agli addetti ai lavori e rimasta confinata nei circuiti finanziari senza impatto concreto sull’economia reale. L’Unione dei Risparmi e degli Investimenti, invece, nasce con un obiettivo completamente diverso: costruire un vero mercato finanziario unico europeo, finalizzato al finanziamento dell’economia reale e, soprattutto, dei beni pubblici europei che oggi mancano di un flusso adeguato di investimenti.   (...) Il nodo centrale, per come conosco il funzionamento delle istituzioni europee, è duplice: da un lato, c’è la questione dei contenuti, ossia quali strumenti concretamente definiranno l’Unione dei Risparmi e degli Investimenti; dall’altro, c’è un problema di metodo decisionale, perché senza il giusto equilibrio politico e istituzionale questa operazione rischia di arenarsi. Su entrambi questi aspetti vorrei dire ancora una parola prima di concludere. Parto dalla seconda questione, quella che mi ha colpito di più. In questo secondo giro di presentazioni del rapporto ai governi, ai parlamenti nazionali e ad assemblee come questa nei vari Paesi membri, ho notato un elemento ricorrente che mi ha particolarmente sorpreso. Dopo ogni presentazione, la prima domanda è sempre la stessa: molto interessante, sarebbe bello arrivarci, ma con le attuali regole europee ci sarà sempre un Paese che si metterà di traverso, porrà il veto e bloccherà tutto. Sentita una volta, può sembrare una semplice osservazione. Sentita la seconda e la terza, diventa un punto su cui riflettere, perché la risposta è in realtà molto semplice: nel mercato unico non esiste il diritto di veto, perché non si vota all’unanimità. Il mercato unico è la materia comunitaria per eccellenza e si vota a maggioranza qualificata.

 

Questa domanda, quindi, non avrebbe nemmeno ragione di essere posta, almeno dal punto di vista tecnico. Eppure non solo viene posta, ma lo è con costanza, e non credo affatto che sia dovuta a una mancanza di conoscenza delle regole da parte degli interlocutori. Viene posta perché, nella pratica, il comportamento all’interno delle istituzioni comunitarie è come se il diritto di veto fosse esteso anche alle materie in cui si vota a maggioranza. Esiste una sorta di tacito accordo tra gli Stati membri per evitare che qualcuno si trovi in minoranza, un atteggiamento dettato dalla paura di ritrovarsi poi nella stessa situazione su un altro dossier considerato strategico. Questo meccanismo, però, finisce per paralizzare l’Unione Europea.

È lo stesso metodo che si usa per le conclusioni del Consiglio Europeo, dove il linguaggio adottato è sempre improntato al consenso generale. Se c’è un punto su cui un Paese non è d’accordo, si specifica che, ad esempio, l’Ungheria non ha approvato quella determinata decisione, ma il principio generale è che il linguaggio resti il più possibile inclusivo e condiviso. Questo approccio, tuttavia, sta minando la capacità decisionale dell’Unione (...) Se si continua con questo schema, non si farà mai l’Unione dei Risparmi e degli Investimenti, esattamente come non si è mai riusciti a realizzare davvero la Capital Markets Union. (...) E’ necessario affrontare la questione dei contenuti, calando nella realtà i tre elementi fondamentali su cui deve articolarsi l’Unione dei Risparmi e degli Investimenti, che si possono ricondurre a due grandi capitoli. Il primo riguarda il modo in cui rendere attraente per i risparmiatori uno strumento europeo di investimento. Affinché questo possa realmente funzionare e attrarre risorse, è indispensabile un incentivo fiscale, coordinato tra i Paesi europei, che renda evidente il vantaggio di allocare il proprio risparmio in uno strumento europeo rispetto ad altre forme di investimento. Se questa condizione viene soddisfatta, si crea la possibilità di rafforzare il mercato finanziario, che a sua volta diventa un volano per il rafforzamento delle imprese europee.

 

L’altro aspetto riguarda la necessità di consolidare l’industria europea dell’asset management, che può crescere solo attraverso un aumento di scala. Questo è un punto cruciale, perché tutto ciò di cui stiamo parlando ha bisogno di dimensioni adeguate per essere efficace. La crescita di scala dipende in parte da scelte manageriali e industriali, ma anche da decisioni politiche che sappiano cogliere la sfida della competitività globale. Senza una dimensione adeguata, il sistema finanziario europeo resterà nella sua attuale condizione di semi-colonia degli Stati Uniti, con il rischio di diventare ancora più marginale.

Su questo scenario esprimo oggi una forte determinazione, ma anche un forte ottimismo. Un allineamento di fattori favorevoli come quello attuale non si era mai visto nella storia recente dell’Unione Europea.(...) La politica internazionale è fatta anche di dinamiche come questa. Lo dicevo l’altro giorno a Bruxelles: mi aspetto che Donald Trump venga candidato al Premio Carlo Magno dell’Unione Europea nel 2025, perché una spinta all’integrazione come quella che si sta verificando in questo momento non si vedeva da anni. Questo riconoscimento, solitamente assegnato a chi ha contribuito alla costruzione dell’Europa, potrebbe benissimo andare a chi, indirettamente, ha reso l’Unione più coesa e determinata nel rafforzarsi. Tuttavia, tutto questo potrà concretizzarsi solo se alcune delle condizioni che ho descritto diventeranno realtà e, soprattutto, se ci sarà una piena consapevolezza del fatto che l’obiettivo di questa operazione è quello di mobilitare risorse affinché gli investimenti privati e pubblici per i grandi beni pubblici europei possano realmente concretizzarsi.

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