Meloni? Più che leader è un'influencer. Un'anticipazione del libro di Renzi

Matteo Renzi

Cambi di rotta politica e ipocrisia trasformata in lirico romanticismo. Dal putinismo all’atlantismo. Dal bacio in testa di Biden al bacio della pantofola a Trump. La premier al centro del nuovo libro di Matteo Renzi: qualche pagina in anteprima

Per i lettori del Foglio, l’anticipazione di alcune pagine dell’ultimo libro di Matteo Renzi, “L’influencer” (Piemme, 192 pp., 18,90 euro. Pamphlet sull’Italia del 2025 scritto da chi ritiene che Giorgia Meloni non sia una leader ma “una influencer che cerca il consenso nell’immediato ma non costruisce speranza, benessere, futuro”. Da oggi in libreria.


 

Nel 2016, al governo ci siamo noi, Meloni guida un piccolo partito dell’opposizione. Negli studi televisivi di La7, da Lilli Gruber, la sorella d’Italia è categorica: tra Putin e Renzi lei non ha dubbi, sta dalla parte di Putin. Alla faccia del sovranismo, dell’interesse del Paese, della Nazione con la N maiuscola e con la meloni minuscola. Immaginate che cosa accadrebbe se io andassi oggi in tv a dire che preferisco Xi o Putin o un altro discutibile leader internazionale al legittimo capo del governo del mio Paese. Vi faccio lo spoiler: partirebbe una batteria di dichiarazioni, tutte uguali, dei membri di Fratelli d’Italia che mi accuserebbero di non avere a cuore l’interesse nazionale. Che mi accuserebbero di essere servo delle potenze straniere. Che mi accuserebbero di essere un traditore della patria. Invece Giorgia Meloni può andare tranquillamente a insultare il primo ministro in carica ed elogiare Putin come ha fatto non solo in televisione. Era il periodo in cui Salvini diceva che avrebbe dato due Mattarella in cambio di mezzo Putin e che prima di ascoltare il discorso del presidente della Repubblica preferiva vedere Masha e Orso. Ma era anche il periodo in cui l’intero gruppo dirigente di Fratelli d’Italia si affannava a pubblicare molti commenti sui social – alcuni dei quali cancellati nel corso degli anni – per dire che l’autocrazia russa era il modello per l’Italia.
C’è sempre bisogno di un intellettuale di riferimento che si incarica di spiegare bene al mondo la posizione. E Fratelli d’Italia aveva indicato il proprio intellettuale di riferimento in Alessandro Giuli, allora semplice studente universitario quarantenne fuori corso e giornalista schierato. Nel 2018, nella raffinata cornice politica di Atreju, Alessandro Giuli definisce Putin “un patriota”. Video pubblico, poi inspiegabilmente rimosso, chissà perché, quando Giuli diviene ministro della Cultura del governo Meloni.
Già, perché la Meloni fa un’inversione a U pazzesca. Ai tempi del nostro governo, dopo le vicende di Piazza Maidan a Kiev e l’annessione russa della Crimea, Fratelli d’Italia sceglie Putin. Contro la comunità internazionale, contro gli Stati Uniti d’America, contro la posizione europea. Meloni, dappertutto, dice che le sanzioni sono sbagliate, i giovani del suo partito manifestano solidarietà davanti all’ambasciata russa e la leader si rivolge direttamente a me come capo del governo chiedendo “un sussulto di dignità”: dire no al rinnovo delle sanzioni perché l’interesse nazionale, spiega Giorgia, è stare con Mosca e non con Kiev.
Non è roba del secolo scorso, tutto ciò avveniva solo qualche anno fa. Ancora nel febbraio 2022, nelle ore in cui Putin sta ultimando la preparazione di quella che avrebbe definito “l’operazione militare speciale”, che nei fatti è l’inizio della guerra con l’invasione dell’Ucraina, Meloni continua a barcamenarsi e prova a incolpare Biden, spiegando che la Casa Bianca “usa la politica estera per coprire i problemi in patria”. Poi però la futura premier si riposiziona. Abbandona il filoputinismo e si schiera totalmente con gli Stati Uniti. Dalle parti di via della Scrofa, sede di Fratelli d’Italia, evidentemente si inizia a sentire aria di elezioni anticipate. Serve un posizionamento filoatlantico, si dicono le sorelle d’Italia. E cambia tutto. La politica estera fatta con gli oplà, saltando di qua, saltando di là, è la caratteristica di Giorgia.
E dunque anche stavolta si cambia. Quando Meloni diventa premier abbandona i flirt russi e si mostra la più obbediente alleata degli Stati Uniti.
Per mesi interi, Meloni non fa niente per spostarsi di mezzo millimetro dalla linea Biden.
Ma Giorgia Meloni è una influencer straordinaria e riesce a trasformare l’ipocrisia in lirico romanticismo. C’è un momento straordinario che andrebbe mostrato nelle scuole di comunicazione politica. È il 22 dicembre del 2024 e dunque siamo in piena frenesia prenatalizia. Giorgia Meloni sostiene di non stare benissimo: raffreddata, abbandona a metà il Consiglio europeo. Non si presenta alla Camera per la Legge di bilancio. Come non si presenterà al Senato per la Legge di bilancio la settimana successiva. Consiglio europeo e Parlamento possono attendere. Meloni organizza una visita in Lapponia per incontrare alcuni leader europei in un evento ad hoc organizzato per lei nel villaggio di Babbo Natale. Fa molto freddo, non è il posto ideale per chi ha abbandonato poche ore prima il Consiglio europeo per ragioni di salute. Ma Meloni è una mamma e ha promesso alla figlia Ginevra di andare a visitare il villaggio di Babbo Natale. E ci sta, dai: l’occasione istituzionale è anche una buona opportunità per mantenere una promessa alla figlia, non ci vedo niente di male. Anche se fatico a capire cosa c’entrino Babbo Natale e la Lapponia con i centri migranti in Albania di cui Meloni parla nell’incontro con i colleghi. Ma forse dell’Albania ormai Meloni parla anche nel sonno.
E soprattutto, se c’è qualcuno che ancora crede a Babbo Natale, magari quel qualcuno si beve anche la storiella che i centri migranti in Albania siano davvero una buona idea. Alla fine, il target è lo stesso, dai: chi crede a Babbo Natale può credere anche alle idee di Meloni. No, non è andata in Lapponia per fare un regalo alla figlia, come dicono i malpensanti. La nostra presidente del Consiglio ha vinto il cimurro, l’influenza e tutti i malanni che le impedivano di stare a Bruxelles per ribadire la storica doppia verità: i centri in Albania fun-zio-ne-ran-no. E Babbo Natale esiste. Sulla Befana, invece, per il momento silenzio stampa.
Ma il discorso che va scolpito nei manuali di comunicazione politica è quello che Giorgia Meloni fa davanti ai militari del contingente italiano in Lituania. Finita la conversazione istituzionale con Babbo Natale, anche solo per giustificare l’aereo di Stato e la missione, Giorgia Meloni raggiunge la base aerea di Šiauliai, in Lituania. E qui – in videocollegamento con tutti i contingenti italiani nel mondo – com’è doveroso per un presidente del Consiglio, fa gli auguri ai militari impegnati nelle varie missioni. Il discorso di Giorgia è bellissimo. Cita Il Signore degli Anelli, lettura che ricorre con cadenza quotidiana nelle citazioni delle sorelle Meloni: la stessa premier è costretta ogni tanto a ricordare: “Vi giuro che non ho letto solo quello”.
Io amo Tolkien: spero che quando andrà a casa questo governo, tra gli effetti collaterali positivi, riusciremo anche a liberarlo dall’utilizzo intensivo che ne fanno i Fratelli d’Italia, che sfruttano la sua opera con citazioni da Baci Perugina. Ho imparato a conoscere Tolkien anche per la sua relazione di amicizia con C.S. Lewis e, nonostante le tante polemiche che ne hanno sempre accompagnato l’opera, trovo che il suo pensiero sia profondo e degno di grande attenzione. Penso che gli scrittori inglesi di quel periodo meriterebbero un’analisi meno superficiale di quella che Fratelli d’Italia offre, intestandosi e strumentalizzando politicamente un autore. Ma, vabbè, non è grave. O meglio: fanno quotidianamente molto peggio.
Torniamo in Lituania. Giorgia Meloni sceglie, tanto per cambiare, una delle frasi più famose e più a effetto: “Non amo la lucente spada per la sua lama tagliente, né il guerriero per la gloria, né la freccia per la sua rapidità, amo solo ciò che difendo”. E dunque il soldato va ringraziato – specie quello che non vede i figli a Natale, che è lontano dalla famiglia, che soffre la lontananza – perché si incarica di difendere un popolo, le famiglie di tutti, i sogni di tutti. E lo fa perché ama la sua gente, ciò che difende. La retorica di Meloni è perfetta. Ed è impreziosita dalla commozione finale. Le lacrime in un discorso del genere ci stanno tutte: fanno tenerezza, esprimono commozione, creano empatia. Perché cito questa particolare visita in Lituania e questo particolare discorso? Perché proprio in questo discorso, in cui oggettivamente l’influencer si supera e ottiene applausi a scena aperta, proprio qui si tocca con mano l’ipocrisia della leader politica.
Perché? Perché c’è un’altra storia da raccontare, cosa che la premier naturalmente non fa.
Quando la Nato decide, nel 2016, di dislocare alcune truppe nei Paesi baltici per rassicurare quelle popolazioni e dare un segnale ai russi, la politica italiana si divide. Noi ovviamente teniamo fede agli accordi siglati nel vertice di Varsavia che ha preso questa risoluzione. Il mio governo viene attaccato da tutte le parti. Movimento Cinque Stelle, Lega, Sinistra radicale. Ma nessuno lo fa come lo fa Giorgia Meloni. Che mi dà pubblicamente dell’idiota. Avete letto bene: idiota. Il solito stile diplomatico, raffinato, elegante della sorella della Garbatella.
Ora, io non so se Giorgia Meloni abbia mai letto L’idiota, il capolavoro di Dostoevskij – oltre al Signore degli Anelli, si capisce – e dunque l’espressione che ha scelto di utilizzare non era per lei un insulto, ma una dotta citazione. So tuttavia che quando deve fare il discorso strappalacrime, da influencer, ai soldati italiani nel mondo, va in Lituania esattamente a rendere omaggio a quelle truppe che lei riteneva essere state inviate da un idiota. L’influencer fa il discorso perfetto, ma la dirigente politica perché non si scusa? Non si rende conto che a livello geopolitico quella decisione del 2016 era meno idiota di quello che lei pensava? Perché non avverte il desiderio di provare a fare un salto di qualità nella sua capacità di analisi della politica estera?
Intendiamoci. Quando la Nato decide di inviare truppe nei Paesi baltici, a scopo di deterrenza, fa una scelta saggia, visto quello che succederà dopo in Ucraina. Ma, proprio in quel 2016, io – che sono al governo e che credo che la politica estera non sia solo bianco e nero, non sia fatta di slogan, non sia una collezione di tweet – metto in campo una strategia più ampia. Stiamo con la Nato e mostriamo la nostra solidarietà portando i nostri uomini nei Paesi baltici. Ma allo stesso tempo teniamo aperto il dialogo con Mosca e non è un caso che il premier italiano sia l’ospite d’onore al Forum di San Pietroburgo. Perché chi conosce la politica estera sa che si lavora con i tempi lunghi, non con le frasettine a effetto. Nella sede di San Pietroburgo – città peraltro di straordinaria bellezza, legata alla mia Firenze da molteplici segni architettonici e comunque ispiratrice di cultura nel mondo – su alcuni punti Russia e Italia si trovano d’accordo. Su altri – anche pubblicamente – prendo le distanze dalle considerazioni di Putin. Ma è così che si fa quando si ha una politica estera, se si fa politica. Non è un caso che io abbia sempre sostenuto le sanzioni alla Russia e l’aiuto all’Ucraina, a maggior ragione dopo il febbraio 2022, ma che abbia sempre cercato una soluzione diplomatica. Da premier, nel novembre 2014, con gli incontri di Milano tra Putin e Porošenko – falliti, ahimè, per decisione di Kiev – e da senatore della Repubblica quando, il giorno dopo l’invasione russa, proposi di accompagnare all’invio delle armi la scelta di un inviato speciale europeo – nella persona di Tony Blair o di Angela Merkel – per trattare tra Putin e Zelensky. Non aver scelto un nostro inviato speciale come Europa ha portato Bruxelles ai margini della discussione e oggi è il cinismo di Trump a dettare i tempi e le modalità di un accordo di pace che l’Europa avrebbe garantito più giusto e più duraturo. Se solo l’Europa fosse guidata da politici e non da influencer.
Giorgia Meloni per anni tuona contro la politica estera di Obama-Biden, poi, quando diventa premier, si sdraia sulle posizioni di politica estera dei democratici americani. Ma quando vince Trump e lei interviene in video, nel febbraio 2025, alla conferenza dei conservatori, il suo è il tipico gesto del calcio dell’asino. Dopo aver annuito in tutti gli incontri pubblici con Biden, Meloni, pur di farsi amico Trump, dice: “Sono sicura che con Trump non vedremo più scene vergognose come quelle del ritiro dall’Afghanistan”. Sottotitolo: voluto da Biden.
Ora, è bene essere chiari: quando l’amministrazione Biden ha lasciato Kabul ai talebani io – che pure facevo parte della coalizione di maggioranza che sosteneva il governo Draghi – mi sono alzato in Senato e ho detto parole durissime contro gli amici americani, accusandoli di aver compiuto un errore storico e di aver tradito la parte migliore dell’Afghanistan: le giovani donne. Piange il cuore a pensare che quelle ragazze sono oggi rinchiuse nei burqa, abbandonate dall’Occidente, allontanate dalle università. Giusto e doveroso criticare Biden. Nel mio piccolo l’ho fatto in aula, a viso aperto, a voce alta. Ma va fatto sempre, non solo quando Biden perde il potere. Certe cose vanno dette in faccia durante i meeting bilaterali, se si è statisti. Altrimenti si è solo dei piccoli e mediocri influencer di provincia. (…)

 
Quando i democratici perdono le elezioni e Trump torna alla Casa Bianca, cambia tutto. Soprattutto tra Russia e Ucraina. E dunque la posizione della Meloni cambia. Non dico che torna al 2018 e al patriota Putin, ma certo abbandona il 2022 e l’amico Zelensky. Se cambia la posizione americana, cambia anche quella italiana: Meloni non concepisce la politica estera come una partita nella quale poter giocare anche in autonomia da Washington. Più che Fratelli d’Italia, sembrano i Cugini dell’Illinois. Alla faccia del sovranismo: il loro è vassallaggio a stelle e strisce.