Il caso

I toni bassi di Meloni con i due Mattei (Renzi e Salvini)

Simone Canettieri

In Senato la premier  bolla i dazi europei come "una rappresaglia" contro Trump e definisce "roboante" il piano ReArm di von der Leyen. Glissa davanti agli attacchi di Renzi, ma poi alla Lega manda un paio di messaggi in bottiglia, dopo aver portato a casa la risoluzione comune 

Non ci sono più le comunicazioni di Meloni al Parlamento di una volta. Perché questa volta la premier, stretta tra un difficile equilibrio fra Trump e l’Europa, ma anche alle prese con le bizze rivendicative  della Lega, sceglie i toni bassi. Perfino durante le repliche, dopo gli affondi (Matteo Renzi su tutti) delle opposizioni. Niente show in Aula – al di là dei consueti pisolini meditativi del senatore azzurro Claudio Lotito – ma tanta strategia. Momento complicato. “Siamo il collante della maggioranza”, dice a Meloni il capogruppo della Lega Massimiliano Romeo incrociandola sulla porta del Senato. “Sì, giusto il collante”, gli risponde la premier.  

Colpo d’occhio dalla tribuna di Palazzo Madama: governo quasi al completo – assenti giustificati i ministri Salvini, Crosetto, Giuli – sottosegretari in grande spolvero abbarbicati sui banchi del governo che “rubano” i posti ai ministri presenti (Tommaso Foti, che ha la delega agli Affari europei siede fra i senatori in prima fila). Luca Ciriani, titolare dei Rapporti con il Parlamento, si era raccomandato per iscritto il contrario, di dare la precedenza nei posti ai ministri, ma l’occasione a favore di telecamera e diretta vista la presenza della premier spinge sottosegretari e viceministri tutti intorno a Meloni. C’è stata tensione nella maggioranza per scrivere questa risoluzione in vista del Consiglio europeo di domani e venerdì, la prima da quando il mondo è cambiato con l’arrivo tumultuoso di Trump alla Casa Bianca. Il test non contiene la parola ReArm, che dà il titolo al piano di Ursula von der Leyen e soprattutto per la prima volta sull’Ucraina dice che “occorre continuare a sostenere l’Ucraina per tutto il tempo necessario, fermo restando l’auspicio di una rapida conclusione dei negoziati di pace”. Nel suo intervento, invece, la premier citerà con forza  l’aggressione russa ribadendo di stare dalla parte del presidente Mattarella. Tutta l’Aula si alza in piedi per applaudire e per solidarizzare con il capo dello stato eccetto il senatore leghista Claudio Borghi che fa con il dito “no, non mi alzo” (e che, dopo. incrociato con il trolley farà il maramaldo spiegando: “Avevo un ‘indolore’ alla schiena”). Meloni nel suo intervento, il primo,   spiega al di là della semantica il piano Ursula sulla difesa, anche dal punto di vista della sostenibilità economica. Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti annuisce, le passa l’acqua, dimostra con il corpo di pensarla come lei. La premier se la prende con le “  grossolane semplificazioni” di chi dice che i fondi per la difesa comune saranno tolti da quelli per la scuola e la sanità – dice anche che non toccherà i fondi di coesione  – sembra avercela con la Lega, ma poi vira sul M5s. Che con il Carroccio pare avere una sensibilità simile sul tema. La presidente del Consiglio, che si tiene lontana dalle armi (“un piano roboante”) ma tratteggia l’importanza di una difesa comune “affinché i nostri  figli siano liberi e felici”) sembra strizzare l’occhio a Salvini quando dice che è da “ingenui se non da folli pensare che l’Europa possa fare da sola lontana dalla Nato”. E a proposito dei dazi imposti dall’Europa come risposta a quelli di Trump  dice che  non è “saggio cadere nella tentazione delle rappresaglie che diventano un circolo vizioso nel quale tutti perdono”. Non è certa, insomma, “che sia necessariamente un buon affare rispondere ai dazi con altri dazi”. Appena terminato il suo discorso, una nota della Lega recita testuale: “Bene Meloni, è la direzione giusta auspicata da Salvini”. In Aula che non regala sussulti a eccezione di uno scatenatissimo Renzi che interroga la premier su tutto (con lei che gli risponde: non faccio promozione al suo libro) resta sospesa la suggestione più interessante forse di questo pomeriggio perché cade mentre Putin e Trump sono al telefono a parlare del futuro dell’Ucraina. La presidente del Consiglio cita l’attivazione di garanzie di sicurezza “tra l’Ucraina e le Nazioni che intendono sottoscriverle”, sul modello del meccanismo previsto dall’articolo 5 del trattato Nato, senza che questo implichi necessariamente l’adesione di Kyiv all’Alleanza Atlantica. Una proposta che sarebbe “decisamente meno complessa, meno dispendiosa e più efficace delle altre proposte attualmente in campo”. Per molti una risposta ai “volenterosi” di Starmer e Macron. Che forse resterà lettera morta ma che segnala l’esigenza di Meloni di restare in movimento tra la vecchia Europa e la nuova America. E questa mattina bis alla Camera.
 

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  • Simone Canettieri
  • Viterbese, 1982. Al Foglio da settembre 2020 come caposervizio. Otto anni al Messaggero (in cronaca e al politico). Prima ancora in Emilia Romagna come corrispondente (fra nascita del M5s e terremoto), a Firenze come redattore del Nuovo Corriere (alle prese tutte le mattine con cronaca nera e giudiziaria). Ha iniziato a Viterbo a 19 anni con il pattinaggio e il calcio minore, poi a 26 anni ha strappato la prima assunzione. Ha scritto per Oggi, Linkiesta, inserti di viaggi e gastronomia. Ha collaborato con RadioRai, ma anche con emittenti televisive e radiofoniche locali che non  pagavano mai. Premio Agnes 2020 per la carta stampata in Italia. Ha vinto anche il premio Guidarello 2023 per il giornalismo d'autore.