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L'estratto

Perché il manifesto di Ventotene è una boiata pazzesca

Ernesto Galli della Loggia

Un gran saggio di Ernesto Galli della Loggia contro il mito dell'Europeismo modello Spinelli & co

Estratto da un saggio di Ernesto Galli della Loggia sul Manifesto di Ventotene, uscito sul libro di G. Amato e E. Galli della Loggia, “Europa perduta?”, Il Mulino, 2014.



Peccato però che proprio queste caratteristiche ne facessero  un testo  inevitabilmente destinato a divenire in breve datato, cioè a non dire più nulla di attuale, e dunque a non essere più capace di comunicare emozioni, di  toccare i cuori e le menti. Insomma un testo condannato alla fine a non servire più a nulla proprio su quel  piano della mobilitazione politico-ideale dove in teoria era chiamato soprattutto ad agire.  Il fatto è che a  differenza delle grandi Carte ideologico-politiche della storia dell’Occidente – la Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino dell’ ’89 –  le quali per così dire volano alto nel cielo dei principi e perciò sfidano il tempo, il nostro Manifesto, viceversa, appare tutto perso  dietro analisi e profezie di corto respiro, e a queste affida interamente le proprie fortune.

Ciò non vuol dire che però, almeno in Italia,   esso sia  ormai diventato una sorta di totem. A scadenza fissa, infatti,   deputazioni al più alto livello, affollate di ministri e presidenti di ogni tipo, si recano a Ventotene per rendere omaggio con alati discorsi commemorativi ai suoi firmatari. Si sforza di non essere da meno  la retorica ufficiale della Ue.  Attraverso la sua influenza, i suoi mille canali, i suoi programmi universitari, la macchina propagandistica dell’Unione è mobilitata da anni, infatti, nella monumentalizzazione di uno soprattutto dei firmatari del Manifesto, Altiero Spinelli, il quale a suo tempo sedette anche nel parlamento dell’Unione e fu membro autorevolissimo della sua Commissione: un “padre dell’Europa”, come si dice. 

Ma  coloro che hanno veramente letto il Manifesto di Ventotene sono in realtà pochissimi. Cosicché, dal momento che  certi paradigmi alla base di quel testo – una certa cultura,  un certo rapporto tra politica e società, certi giudizi – sono divenuti parte essenziale di quello che potremmo chiamare il senso comune europeista, è forse non inutile rileggere quelle parole. Bisogna vedere di che cosa è fatto  il totem.

Se lo si fa, è difficile evitare un moto di sorpresa. Il Manifesto, infatti, è dominato per tre quarti dal problema del totalitarismo e delle sue cause, frettolosamente individuate nella dimensione dello Stato nazionale. Il quale Stato nazionale sarebbe per sua natura destinato ormai a produrre la degenerazione plutocratica fascista, a spese di un liberalismo al quale non è più assegnata alcuna possibilità di sopravvivenza. Lo Stato nazionale, secondo il Manifesto, è ormai divenuto il ricettacolo di tutti i vizi. Se mai esso sopravvivesse alla guerra in corso – prevedono gli autori che, lo ricordo, scrivono nel 1941 – ciò equivarrebbe all’anticamera dell’anarchia e della reazione. Unica alternativa, dunque, lo stato federale europeo. Ma tale stato federale, proseguono, ha senso solo se esso si prefigge “la riforma della società” “contro le disuguaglianze e  i privilegi”. E concludono: “La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista”. Il Manifesto si diffonde a lungo sul nuovo assetto socialista da stabilire sul continente, sì che si direbbe che sia questo, più che il progetto federalista in quanto tale, a costituire  il suo vero nucleo politico-programmatico. Un assetto socialista al quale danno mano, singolarmente all’unisono, da un lato l’antica opzione ideologica di Spinelli, sopravvissuta al suo ripudio dello stalinismo, e dall’altro la fede liberista di Rossi, ben deciso  a opporre a qualunque monopolio privato l’amara medicina della statizzazione. Arriva a tal punto l’enfasi sovvertitrice del testo da affermare  che “la metodologia politica democratica sarà un peso morto (c.vo mio) nella crisi rivoluzionaria”, e che il partito europeista rivoluzionario, lungi dal preoccuparsi  di “una preventiva consacrazione da parte dell’ancora inesistente volontà popolare”, non dovrà arretrare neppure davanti alla prospettiva di una dittatura, pur di creare “con polso fermo fin dai primi passi le condizioni per una vita libera in cui tutti i cittadini possano partecipare alla vita dello Stato”. Sì, il lettore ha capito bene: quello che il Manifesto propone è una rivoluzione dall’alto di tipo giacobino-leninista che non stia a curarsi troppo di che cosa pensa il popolo. “Polso fermo”, largo impiego di soluzioni socialiste in economia, e se necessario una certa dose di dittatura: questa è la strada tracciata in vista dello stato federale europeo. Da qui, almeno in Italia, nasce ufficialmente l’europeismo.

E’ abbastanza sorprendente che  schiere di esponenti politici, presidenti del Consiglio, vertici della Banca d’Italia, giornalisti di grido – i quali oggi si batterebbero come leoni perché neppure un decimo dei propositi suddetti si realizzasse nei propri paesi, e che quasi sempre sono autori di una costruzione europea realizzata su basi del tutto opposte – è abbastanza sorprendente, dicevo, che a scadenza fissa persone di tal genere ostentino invece una devozione encomiastico-celebrativa di maniera verso i propositi giacobini di Spinelli, Rossi e Colorni, elevati a Magna Charta del federalismo continentale. Non c’era proprio un testo più confacente – ci si può chiedere – qualcosa di più presentabile? Si direbbe di no, anche a giudicare dalla  fine miseranda di quella che avrebbe dovuto essere la nuova Carta dei valori dell’Europa, cioè il progetto di Costituzione, perdutosi nel nulla dopo la bocciatura da parte degli elettori di Olanda e Francia nel 2005. A giudicare, cioè, dall’impossibilità di immaginare oggi un insieme di principi, di organi e di meccanismi istituzionali, in grado di incarnare le fondamenta condivise dell’Unione europea, di fornire a questa un solido indirizzo per l’avvenire. Non esiste oggi alcun progetto possibile di costruzione politica europea capace di ottenere il consenso dei governi e dei cittadini dell’Europa. Considerato che sono passati sessant’anni dai Trattati di Roma non si può dire che ci sia da essere troppo soddisfatti.

Così, se vuole esibire delle ascendenze ideali storicamente prossime l’Europa – o per essere più precisi la sua élite politico-burocratica – è costretta a riconoscersi tuttora nel Manifesto di Ventotene: un documento tanto nobilmente ispirato quanto infarcito di enunciati che oggi appaiono quanto meno bizzarri e fuori del tempo. E’ forse proprio per ciò che il culto reverenziale per tale testo è, se non mi sbaglio, una faccenda riguardante soprattutto se non esclusivamente l’Italia. Altrove, infatti, esso è perlopiù appena ricordato, ormai,  e neppure preso troppo sul serio. In Italia invece no, almeno a parole. E forse è anche questa una prova del fatto che il nostro intero universo politico è rimasto come fissato per sempre al proprio dna originario, all’antica piattaforma ideologica con cui esso si presentò sulla scena  nell’immediato dopoguerra, e alla legittimazione che allora ne ricavò.  Quella piattaforma ideologica molto  “di sinistra”, carica d’utopismi, di ansie egualitarie, di propositi radicalmente rinnovatori, che anima la nostra Costituzione ma allo stesso modo, per l’appunto, anche il Manifesto. E che oggi costituisce la sostanza totemica che entrambi i documenti hanno finito per rappresentare nel discorso ufficiale del paese. Da noi, insomma, sembra essere accaduto che una classe politica sempre più insicura, sempre più priva di idee e di orizzonti, proprio per questo abbia sempre più sentito il bisogno di restare avvinghiata a quei pochi ancoraggi del passato – la Costituzione, il Manifesto in questione, appunto – da lei creduti ancora saldi e in grado di conferirle il senso e il ruolo che invece le stavano venendo meno. Non da ultimo proprio  a causa, paradossalmente, del suo non sapersi staccare da essi.